domenica 31 gennaio 2010

La pensosa spensieratezza del Musical

Ho visto in totale 4 Musical in 2 giorni ed iniziano a farsi vedere gli effetti collaterali di questa eccessiva dose di commedia musicale! Canto e ballo tutto il giorno: quando mi alzo dal letto mi dirigo in bagno facendo tip-tap in pigiama con gli occhi ancora semichiusi, penso addirittura le coreografie di come potrei lavarmi i denti e, guai se prendo in mano qualunque oggetto ombrelliforme! Ieri sono uscito sotto la pioggia e mi sono messo a cantare “I’m Siiinging in the rain” mentre mi zuppavo completamente i vestiti rischiando un malanno come il povero Gene Kelly. Ho deciso, allora, di scrivere qualcosa proprio riguardo a questo film musicale: “Singin’ in the rain[MGM, 1952].

Devo ammettere che ho particolarmente apprezzato questa pellicola, proprio perché permette una riflessione interessante sul cinema musicale al suo nascere, inteso come genere innovativo all’interno della grandissima produzione cinematografica del periodo che, spesso, non riusciva ad eguagliare il teatro per qualità.
Don Lockwood è un celebre attore di cinema, sempre in coppia, nella vita come nel lavoro, con Lina Lamont. Il duo è famoso nell’ambiente per una serie di pellicole romantiche tradizionali dell’era del cinema muto, dove la loro interpretazione si limita ad esasperare ogni gesto di corteggiamento per terminare in quel tanto atteso bacio. La crisi del cinema muto durante gli anni ’20 inizia ad essere evidente con l’uscita del primo musical americano sonoro: “The Jazz Singer”. Come avvenne per il Fritz Lang di “M” anche i nostri protagonisti sono costretti ad inventare un nuovo modo di fare cinema, reinterpretando il film in produzione, inizialmente in chiave sonora senza grandi successi, ed in seguito trasformandolo in film musicale.
Kelly è grandioso nella sua performance, ma ancora prima di lui è necessario valutare la scelta dei numeri musicali e le coreografie che, ripercorrendo la storia del musical, si divertono a citare i più grandi show di Broadway lasciando poco spazio ai temi originali. Ogni numero di questa pellicola è uno spettacolo pirotecnico, espressivo e burlesco ma mai estremizzato o esagerato. Probabilmente tutti, una volta nella vita, si sono ritrovati con un ombrello a camminare sotto la pioggia fischiettando il famoso motivetto. Talmente importante da venire citato da Kubrick nel suo capolavoro “Arancia Meccanica[A Clockwork Orange, 1971] come parte imprescindibile della pop culture.
Il film è del ’52 ma ha una valenza retrospettiva. Il regista Stanley Donen decide di fermarsi un secondo, prendere un respiro e dare un’occhiata a tutto quello che c’è stato prima di lui per poterlo raccontare in modo efficace e permettere al pubblico di riflettere sul cinema nella sua interezza.
Il tempo del puro “entertainment” è finito, gli anni del cinema inconsapevole di se stesso sono ufficialmente nel passato. Eppure, ogni tanto è possibile ripescare qualcosa da questo passato scintillante e riproporlo in chiave differente, come vediamo nel finale del film dove Don è talmente affascinato dal mondo del cinema musicale da sognare un glorioso trionfo a Broadway tra i set dei più grandi spettacoli come The Broadway Melody [1929] e The Broadway Melody of 1936 [1935].

Di tutt’altra idea è invece il film “The Band Wagon[MGM, 1953] diretto da Vincent Minnelli, un altro grande del Musical americano, ed interpretato dall’ideale controparte di Gene Kelly: Fred Astaire.
Il film si trova nella situazione inversa, l’ambientazione è quella contemporanea degli anni 50, dove ormai il genere musicale era considerato come una forma d’arte minore e di poca importanza. Il protagonista Tony Hunter è un attore “attempato” celebre per le sue interpretazioni di poco spessore nelle commedie musicali della fine degli anni ’30. Per rilanciare la sua carriera gli viene proposto di interpretare un musical teatrale di grande profondità artistica, una rilettura moderna del Faust, diretto da un famoso regista di tragedie classiche. Nonostante la sua riluttanza, Tony/Fred si decide a portare in scena questo kolossal ma la sera della prima viene dichiarato il suo insuccesso. Prendendo in mano la situazione, il nostro attore “attempato” decide di farlo a modo suo, trasformando il drammone in commedia, come era stata inizialmente pensata dagli autori del testo, portando in scena quattro atti di puro divertimento e risate, con un vago riferimento al precedente fallimento all’interno del testo delle canzoni.
Con il numero “That’s Entertainment”, ripetuto due volte all’interno del film per sottolineare come in differenti contesti questa frase rimanga valida quando si parla di musical, Minnelli si dichiara un fondamentalista della commedia spensierata, pur dirigendo un film altamente riflessivo.
Il contrasto che permette la riflessione avviene nel momento del fallimento dello spettacolo "impegnato" e del trionfo di quello "leggero" dove Astaire sembra esclamare un musicale "Te l'avevo detto!" al mondo del cinema mentre si allontana ballando con la bella ragazza di turno.

sabato 30 gennaio 2010

West Side Story (o, Storie dall'altra sponda)

Prima pellicola, non in ordine cronologico, che presenterò a voi lettori è West Side Story.

I miei preconcetti su questo musical erano tanti: la trama, la durata ed il solito astio iniziale per i film musicali. Eppure, devo ammettere che la visione mi ha lasciato soddisfatto.

Dopo la prima ora del film ho iniziato a trovare significativi i molti riferimenti alla tragedia “Romeo and Juliet” di W. Shakespeare, che sicuramente tutti conoscete, ma al termine della pellicola ho notato quanto questi riferimenti fossero fondamentali per l’andamento del film e per l’approfondimento dei temi portanti di quest’opera.

In breve, immaginate di riproporre la vicenda dei due innamorati di Verona tra le strade sporche e pericolose di New York dove due bande rivali si affrontano giorno dopo giorno per il dominio della zona. Sicuramente meno “esagerato” del film di Luhrmann [William Shakespeare's Romeo + Juliet, 1996] questo musical utilizza una trama classica per parlare di temi assolutamente contemporanei e che, purtroppo, non smetteranno mai di essere fonte di discussione.

West Side Story, nonostante la sua spettacolarità e la cura per i dettagli, parla dell’odio e della difficoltà di integrazione di un gruppo di immigrati portoricani che vedono nel sogno americano la realizzazione di ogni propria speranza.

Come dicevo, ho trovato molto interessanti le trovate registiche per movimentare l’azione nelle coreografie labirintiche delle stradine di New York, come si vede nella grandiosa sequenza d’apertura. Meno interessante, e oso dire “banale”, è stata la trovata di far recitare in “spanglish” attori che non sono affatto di provenienza sudamericana. Questa forzatura ha portato ad uno svilimento del messaggio contenuto nel film, a mio avviso, rendendo più evidenti certi cliché che rendono alcune sequenze pacchiane.


Si dice spesso che i musical di Broadway siano gay. Questo viene parodiato in “The Producers” di Mel Brooks (uno dei pochi musical che adoro) con i versi: “No matter what you do on the stage Keep it light, keep it bright, keep it gay!” oppure è comune nella tradizione del musical classico il termine “Gay” come sinonimo di gaiezza o di allegria e spensieratezza come prerogativa di uno spettacolo divertente.

Sarà che non me ne intendo molto di musical, però mi è parso, specialmente in questo film, che l’azione che manda avanti la trama sia estremamente caratterizzata dal punto di vista sessuale.

Mi spiego. Nella giungla della grande mela degli anni ’70 è difficile “marcare il proprio territorio” proprio per la vastità di questo, come ci suggerisce una prima panoramica dei titoli di testa. Questi ragazzi, perché di giovani stiamo parlando, in pieno sviluppo sessuale, si impegnano per difendere il proprio vicolo, il parco dove giocano, le proprie donne e la propria casa. Come ci insegna Freud, questi comportamenti animaleschi hanno una base profondamente sessuata. Le pulsioni vengono espresse tramite la danza e la musica, il ballo ed il canto, Fred Astaire o Gene Kelly danzavano per conquistare una bella ragazza e volgevano la propria pulsione verso l’oggetto sessuale da loro desiderato. Stessa cosa accade in West Side Story, dove, però, le movenze coordinate ed armoniche dei protagonisti, anche durante la loro lotta mortale, fanno comunque pensare ad una connotazione sessualmente attiva di tipo omosessuale. Ci troviamo comunque all’interno di uno “spettacolo” per cui i corpi atletici degli attori risaltano, le movenze di tipo teatrale la fanno da padrone ed una qualunque lotta per il dominio non può essere presa troppo sul serio.


West Side Story, allora, ad una lettura freudiana, non appare affatto gaio ma veramente molto gay.


venerdì 29 gennaio 2010

Su il sipario!


La passione che mi lega al cinema è pari a quella che mi lega alla musica, eppure, la commistione di queste due forme d'arte, spesso, non mi esalta.
Il
Musical delle origini non mi ha mai appassionato, la sua evoluzione, per contro, riesce a tenermi incollato allo schermo per un ora e mezza nei casi migliori, ma è veramente veramente raro.
Vedere Gene Kelly e Fraid Astaire che ballano "o tippo tappo" non è sicuramente tra le mie priorità in campo cinematografico, però, per motivi di studio (grazie prof. Gebbia) sono costretto a vedere una vagonata di pellicole musicali prima del 1 Febbraio. Oh, badate bene, non mi lamento affatto! Pensare che il mese prossimo devo leggere la Critica della Ragion Pura di Kant e scriverci sopra una bella tesina di 30 pagine mi farebbe rimpiangere tutte le faccine sorridenti anni '50 che cantano e ballano, compreso John Travolta. Eh si, proprio lui.
Il mio progetto, nato per dare una botta di vita al mio blog in semi-coma vegetativo, è quello di scrivere un paio di righe di sinossi ed un paio di commento ad ogni film che vedrò.
Sono già in debito di due pellicole, per cui dovrei darmi una bella mossa!

So, without further ado... let the Musical begins!


sabato 16 gennaio 2010

Pianto alla cantonese


Hachiko è un film piagnone. Bellissimo, poetico, struggente, ma piagnone da morire.

Come non tutti saprete, il plot pretende di essere una storia vera; ciò che è vero è che la sceneggiatura è stata prodotta dopo un grande lavoro di riadattamento o occidentalizzazione di una leggenda giapponese della prima metà del novecento, che a sua volta era stata trasposta su pellicola da Seijirô Kôyama nel suo “Hachiko Monogatari" del 1987.

Lo ammetto, purtroppo non ho visto il film originale, mi è capitato di vedere Hachiko [Hachiko: A Dog's Story – Lucky Red 2009] senza saperne assolutamente nulla, dopo aver incontrato Richard Gere ed il cagnolino protagonista del film sul red carpet del Festival Internazionale del Film di Roma. La situazione mi ha incuriosito e mi sono convinto a dargli una chance.

Al termine della proiezione, oltre al classico applauso da festival, c’è stata una soffiata di naso collettiva. Uscendo dal cinema ho visto l’intero gruppo delle spettatrici intente a rimettersi in sesto il trucco dopo averlo devastato da due ore di intenso pianto. Gli spettatori maschi, invece, me compreso, cercavano di mantenere un contegno nonostante il viso paonazzo e le guance solcate da una sola piccola lacrimuccia.

In quest’ultimo lavoro di Lasse Hallström è facile rilevare la grande influenza orientale (usa e getta) che il regista ha voluto esprimere, a livello di estetica dell’immagine, per mantenersi il più possibile fedele alla tradizione giapponese.

Quello che sicuramente mi ha colpito è stata la scelta cromatica molto accurata ed il costante lavoro fotografico per mantenere i toni sempre malinconici, da un certo punto di vista. Non esistono colori sfolgoranti in questo film, l’atmosfera e le gradazioni permettono all’immagine di acquisire una valenza “autunnale” che, ovviamente, è intonata con il manto del protagonista quadrupede.

Un secondo pregio del film è la colonna sonora. Vorrei concentrarmi sulla validità della musica come mezzo per trasmettere emozioni, poiché proprio di questo si occupa. Le note di un pianoforte accompagnano la visione del film dall’inizio alla fine, accostate, spesso, dalla potenza evocativa degli archi che, come sappiamo, sono lo strumento “emotivo” per eccellenza.

Immagine e suono riescono a produrre una grande armonia all’interno della pellicola, non sono due enti distinti e separati che viaggiano su uno stesso binario temporale. Si fondono insieme per creare una serie di sensazioni che permettono allo spettatore di essere predisposto emotivamente ad una determinata sequenza. Questo è, a mio avviso, il tocco magistralmente orientale che il regista ha voluto infondere alla sua creazione.

Al di là delle scelte di montaggio o del taglio delle inquadrature, che sicuramente contano molto nella definizione di una scena “alla orientale”, è l’armonia globale a fare di Hachiko un “bel” film da guardare. Il cinema giapponese, cinese e koreano dell’ultimo ventennio ha dettato le regole nel campo della composizione dell’immagine. La cura e l’attenzione che viene riposta nella composizione dei fiori (ikebana), della tavola durante la cerimonia del tè (chadoo) e della messa in scena delle opere teatrali (kabuki) è propria di una tendenza orientale nella coreografia delle immagini. In questo, Hachiko, lo ripeto, è un film “bello”, se mi permettete il termine nella sua accezione puramente estetica.

Ecco il tasto dolente, perché, ovviamente, c’è un tasto dolente.

Hachiko con Richard Gere è un film americano, non un film giapponese. Questo sembra ovvio a prima vista, ma, ad una visione più attenta diviene addirittura disturbante.

Cosa voglio dire, mi spiego.

Lo spirito e la cura di un film orientale è fondamentalmente diverso dall’attenzione che viene riposta in un film americano. Nella società del grande consumismo e nella patria indiscussa del capitalismo tutto viene fatto per un motivo, ogni atto è finalizzato ad un effetto. Anche l’arte, purtroppo, diviene industria. Ne abbiamo parlato in passato riguardo alla comicità, non vorrei ripetermi, ma purtroppo anche nel genere drammatico (e come vedremo in futuro, specialmente nell’horror dove la linea per sconfinare è veramente molto sottile) si rischia di rendere un film piagnone.

Ogni sequenza è finalizzata alla commozione o all’intenerimento dello spettatore nei confronti del piccolo cagnolino. Oltre ai milioni di close-up sul muso e sulle espressioni (?) di Hachi, vengono addirittura adottate delle soggettive in bianco e nero per permettere allo spettatore di avvicinarsi sempre di più alla figura del protagonista fino ad identificarsi con lui nel catartico finale.

Il tocco “occidentale” che svia il messaggio del film dalla sua pretesa di “orientalismo“ è finalizzare una buona storia ed un bel film (ricordate il “bello” di prima, rieccolo) a far piangere, toccando quel masochistico piacere inconscio dello spettatore con elementi classici come : il cagnolino, il padrone amorevole che muore, l’attesa costante e la fedeltà eterna di questo, ed il finale che non vi svelerò.

In definitiva, probabilmente l’Hachiko giapponese sarà stato un film interessante, ma quello americano è un pretesto per versare lacrimoni ed uscire dal cinema emotivamente instabili ma stranamente soddisfatti.

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P.S. : Nel film, in un ruolo marginalmente importante, figura Cary-Hiroyuki Tagawa che molti di voi ricorderanno per aver interpretato Shang Tsung nel film di Mortal Kombat... giusto una nota thrash per gli amanti del genere :-)

domenica 10 gennaio 2010

Recensione 3°: ... Qualcuno volò sul nido del cuculo ...

Regia: Milos Forman
Sceneggiatura: Bo Goldman, Lawrence Hauben
Attori: Jack Nicholson, Louise Fletcher, Will Sampson, Alonzo Brown
Paese: Usa 1975
Genere: Drammatico
Durata: 125 minuti

"Qualcuno volò sul nido del cuculo" è forse uno dei film più belli mai realizzati. Beh, forse oggi a distanza di più di 30 anni sembra un po' scontata come affermazione, ma vi assicuro che per giudicare una pellicola del genere il tempo trascorso è irrilevante. Girato nel 1975 da un visionario come Milos Forman, prende di petto un argomento che fino ad allora non era mai stato trattato in maniera così esplicita sullo schermo. Tratto dal romanzo di Ken Kensey il film narra la storia di Randle Patrick McMurphy (Jack Nicholson), un detenuto che arriva in un ospedale psichiatrico statale per essere vagliato. Nonostante sia lampante che la condizione mentale del detenuto non presenti anomalie, McMurphy sta al gioco fingendosi pazzo per scampare ai campi di lavoro. Ma una volta entrato scoprirà che il suo piano non è stato poi cosi geniale, perchè una volta etichettato come “pazzo” dovrà rimanere nella struttura finché i medici non lo riterranno “guarito”. Fin da subito mette in mostra la sua vena anticonformista e il suo disprezzo per quelle regole che gli sembrano così assurde ed insensate, portando scompiglio in tutta la struttura, rendendo difficile il lavoro di medici e infermieri.
Con il passare del tempo riuscirà a ribaltare le abitudini dei suoi compagni di sventura, rendendoli più capaci e sicuri in se stessi. Nonostante la malattia, li metterà al suo stesso livello, facendo sparire quell'alone di superiorità che troppo spesso è usato nei confronti dei malati psitici. Ma dulcis in fundo troverà un grande amico (Grande Capo Bromden aka Will Sampson) che come lui usava come scusa la malattia mentale, ma in modo decisamente differente...
Vincitore di ben 5 premi Oscar il film tratta argomenti sempre attuali che spesso vengono accontonati, come i diritti dell'individuo, il disagio psichico, la follia, l'handicap, e la malattia mentale in rapporto con la società. La performace di Jack Nicholson è sublime, infatti suo uno degli oscar assegnati, anche se a mio avviso il personaggio che più colpisce è quello messo in scena da Will Sampson (Grande Capo Brondem) che alla fine strappa una lacrima anche ai veri cuor di leone.
Spettacolari anche le interpretazioni dei grandi Danny DeVito e Vincent Schiavelli nelle parti di 2 semplici “pazzi”. Detto questo che posso aggiungere... sceneggiatura da Oscar, regia da Oscar, attori da Oscar e film da Oscar! Non posso che consigliarvi questa pietra miliare del cinema, considerato da me uno dei film più belli ed emozionanti degli ultimi 50 anni.

martedì 5 gennaio 2010

Il (Non) Senso della Vita

Ultimamente ho iniziato ad occuparmi di comicità, probabilmente è un periodo in cui ho voglia di ridere, ma senza far perdere mai al mio occhio gli aspetti critici che lo caratterizzano.
Con la fine dell’anno ho voluto ripercorrere l’itinerario mentale delle produzioni che più mi hanno divertito negli ultimi tempi; quelle serie tv senza le quali non potrei mai vivere, quelle geniali commedie che mi lasciano incollato allo schermo, le battute che ricorderò per anni e anni e non smetteranno mai di farmi ridere.

Parlavamo, la settimana scorsa, delle differenze culturali evidenti tra la comicità americana e quella italiana, passando saltellando anche attraverso quella anglosassone. Questa volta vorrei concentrare il discorso proprio su quest’ultima, ricorrendo ad alcuni dei maestri della risata “all’inglese”: il gruppo dei Monty Python.
Per avere una visione completa e, soprattutto, chiara sul talento di questo gruppo di attori/autori è necessario dividere la produzione rivolta alla sala cinematografica da quella diretta ad un pubblico televisivo, con le sue tempistiche e regole di messa in scena. Infatti, gran parte della produzione comica televisiva britannica di questo decennio è stata contaminata dalla lezione di John Cleese & Company.
Il primo esempio, capostipite della figliolanza dei Python, è Little Britain.
Inglese fino al midollo, farcito di quell’audacia tipicamente british che riesce a divertire parlando di omosessualità, falsi paraplegici, obesità e razzismo. Avrei potuto aggiungere “senza mai scadere nella volgarità” ma non sarebbe stato assolutamente sincero da parte mia. La comicità del duo Matt Lucas e David Walliams è volgare, da morire, così come lo è gran parte della produzione comica inglese. Eppure, in questo caso come in altri, la volgarità riesce ad avere un senso ed un chiaro ed esplicito movente, quello di scuotere l’opinione pubblica e scrollarsi di dosso quella nomina di comici con la bombetta politicamente corretti in stile Laurel & Hardy o Mr. Bean. Non posso neanche dire che spesso non sia di cattivo gusto, ma, come ho appena detto, loro voglio essere maleducati per abbattere l’inutile distinzione tra buon gusto e cattivo. Mi torna in mente la tradizione del romanzo vittoriano che, a quanto pare, non ha mai abbandonato il cuore degli inglesi nelle forme del linguaggio utilizzato sulla BBC.

Proprio qualche giorno addietro, invece, ho avuto il piacere di vedere nuovamente uno dei capolavori cinematografici dei Python: il film “The Meaning of Life” [Monty Python's The Meaning of Life, 1983], dove si alternano sequenze surreali legate da una sola domanda: “Qual è il senso della vita?”. Ovviamente non mancano, come sempre, delle frecciatine alla storia della filosofia e ai numerosi tentativi da parte dei filosofi di tutto il mondo di dare una risposta a questo mistero che, apparentemente, deve rimanere tale.
La forma cinematografica del film è data dal filo conduttore che lega i numerosi sketch che, altrimenti, avrebbero ricalcato la classica struttura televisiva del programma The Flying Circus di cui i Python comparivano nelle vesti di interpreti ed autori principali.
L’opera mantiene la dissacrante comicità alla quale siamo abituati ripercorrendo il destino dell’uomo come individuo dalla sua nascita alla sua morte, riflettendo in maniera quasi esistenzialistica sull’assurdità degli avvenimenti che accompagnano questo nostro cammino. Il film non viene concepito come opera “ontologica”, non vuole rivelarci il senso della vita, ma vuole farci intendere quanto assurdo possa essere anche solo il porsi di questa domanda.

Pochi giorni dopo la visione di questo film, scartabellando e rovistando nella memoria del mio fido “quadratino” (un giorno magari vi parlerò anche di lui, ma non è oggi il caso) ho trovato una pellicola che cercavo da molto tempo che, mai come in questo momento, ho pensato potesse fare al caso di cui stiamo trattando.

Il film di cui mi occuperò, nell’analisi parallela al film dei Python, si chiama “The Ten” del regista David Wain [The Ten, Delta Pictures 2007]. Nei 93 minuti della pellicola si alternano dieci storie ispirate ai dieci comandamenti, come se volessero, in qualche modo spiegarli o dare loro una sorta di giustificazione. In ogni modo, le storie illustrano personaggi ed eventi ispirati ai comandamenti e sono introdotte da un Paul Rudd che, spesso, trascende il compito di presentatore per permettersi di lamentarsi della propria vita coniugale. Devo dire che questa pellicola non ha mai raggiunto il successo che sperava, specialmente nel mercato italiano, viene infatti considerata un flop dalla critica, la quale, spesso in maniera fin troppo leggera, la bolla con l’aggettivo “volgare” lasciandola cadere nel dimenticatoio.

Un commento che ho letto spesso a proposito di questo film è stato (parafrasando un pochino l’opinione comune): “Mi sembra assurdo andare al cinema e vedere Winona Ryder accoppiarsi con un burattino di legno o Adam Brody lanciarsi da un aeroplano e rimanere vivo, ma conficcato nel terreno come una bandiera”. Devo darvi ragione, come spesso accade, quello che avete visto è assurdo. Lo è, ma non vuol dire che queste assurdità non siano state appositamente scritte e prodotte per un motivo.
Come accade per “The Meaning of Life”, anche la rilettura grottesca e dissacrante della religione tende, questa volta apertamente nel numero musicale conclusivo, a sottolineare quanto sia assurda l’imposizione di una legge antica di più di 2000 anni addietro. I dieci comandamenti della tradizione ebraico/cristiana vengono sintetizzati in una sola “legge”: la legge dell’amore. Il messaggio conclusivo del film, dal sapore vagamente hippie, ha comunque una sua valenza etica che in termini filosofici viene discussa da molto tempo.

Cosa voglio dire, in conclusione?

L'assurdo è nelle nostre vite, nei nostri film e nella nostra morale. Per quanto possa essere difficile da accettare, anche un film che si limita a constatare questo assurdo e a non affermare niente di particolare, ha una sua valenza. L'assurdo non è privo di significato da un punto di vista formale, ma tende a svuotare la tradizione di un significato superato, rivoltandola come un calzino.
Anche il cinema comico, facendoci ridere, trasmette un messaggio non indifferente. E proprio la risata, per quanto "assurda" possa essere, ci permette di accettarlo con un sorriso sulle labbra.