venerdì 16 luglio 2010

Ancora alieni e ancora alienazioni


Lo avevo promesso, non ho avuto troppo tempo per farlo prima ma, per una fortunata coincidenza, ho acquistato il Dvd di questo film a pochi spicci ad un mercatino e mi sono convinto a parlarne in modo adeguato.

É cosa risaputa che gli Oscar ti fanno “rosicare”. A meno che tu non sia un fanatico del mainstream (e spesso neanche quello ti salva) oppure un pecorella cinematografica, il tuo film favorito non vincerà mai la statuetta dorata. Nel mio caso, ancora più radicale da alcuni punti di vista, ho sempre visto perdere miserabilmente le pellicole che più avevo apprezzato nel corso dell'annata cinematografica. Spesso alcuni film non ci sono neanche mai arrivati agli Oscar. Ma va bene.
Quest’anno il panorama degli Accademy Awards ci prospettava una sfida molto interessante, forse troppi film meritevoli in concorso, per motivazioni disparate.

Il colosso della tecnologia con gli alieni blu, il film della regista donna impegnata politicamente, la ribalta delle minoranze aliene in Sudafrica, il “capolavoro” di Tarantino, una scabrosa passeggiata nei bassifondi della cultura afro-americana negli USA, ribalta di attori sfigati ed il blockbuster lacrimone della Pixar. Non si direbbe, ma sono tutti film che ho molto apprezzato!
Io però punto sempre sul cavallo zoppo, è una delle mie caratteristiche, e quest'anno è toccato al caro e bistrattato: District 9.


 Avevo pensato di parlare di questo film, confrontandolo con la sua “nemesi” Avatar, ma sarebbe troppo riduttivo, per cui dedicherò solo poche righe a questo argomento.
La prima impressione che ho avuto di District 9 è stata “Wow, se Cronenberg avesse letto la sceneggiatura di Avatar, ne avrebbe tratto queste conclusioni!”. I due film hanno molto in comune, ma sviluppano le stesse tematiche in maniera molto differente.
Il discorso di Cameron rimane collocato all'interno dell'estetica della perfezione mentre questa produzione indipendente scende in profondità e non si lascia accecare dalla possibilità di un lieto fine hollywoodiano. Mi spiego meglio.

Entrambi i protagonisti del film si muovono (uno liberamente, l'altro coattivamente) tra l'umano ed il sovrumano. Il soldato che sfrutta le nuove tecnologie per perfezionarsi tramite il suo gigantesco avatar alieno si trova nella stessa posizione del povero impiegato che muta, ora dopo ora, dalla sua condizione di umano a quella di “fuckin' prawn”. Entrambi acquistano una diversa consapevolezza della propria condizione, si trovano a rivalutare le istituzioni che hanno supportato fino a poco tempo prima, le stesse che li hanno traditi e tentano di sopraffare la popolazione aliena. Razzismo, in pratica.
Il protagonista di Avatar vuole cambiare corpo, o meglio, vuole perfezionare il proprio corpo difettoso. In D9, invece, il protagonista viene derubato della sua condizione di soddisfazione (lavorativa, familiare e psicologica) per fare fronte ad un cambiamento sociale che coinvolge. L'integrazione razziale diviene integrazione corporea, fisica e patologica dell'individuo e diviene parte della razza aliena.

Perché ho pensato a David Cronenberg? Lui è il regista del “corpo” per eccellenza e District 9 è un film molto “fisico”. Come in “La Mosca”, il protagonista subisce una metamorfosi che viene rappresentata in maniera eccellente dall'apparato di effetti speciali della pellicola.
Questa metamorfosi, però, nel caso di D9 non è solamente fisica ma, come abbiamo accennato, sociologica. Wikus (Sharlto Copley), proprio perché rappresenta la diplomazia terrestre è costretto a “mettersi nei panni” degli alieni e quindi si immedesima nei problemi della loro razza. Ancora una volta, queste sono tematiche che vediamo trattate in Avatar (la stessa sequenza finale di lotta tra Wikus ed il cattivone di turno è molto simile all'epilogo di Avatar, data la presenza dei mecha robotici in entrambi gli scontri) ma il film di Cameron è meno attento alle dinamiche sociali e più intento alla creazione di una realtà parallela e fantastica dove lo spettatore possa vivere e dimenticare i propri problemi (non risolverli).


Ora, scaviamo un pochino nel territorio di District9 traendo qualche conclusione dai suoi elementi costitutivi.
Il film è innegabilmente un particolare sci-fi movie. Nonostante non si mantenga sulle tematiche dell'invasione aliena, proprie del genere, che sia pacifica o bellicosa. Infatti, gli alieni di D9 sembrano più dei naufraghi. La sequenza iniziale dove la spedizione terrestre esplora l'interno della mothership che si staglia sopra Johannesburg ci ricorda un ipotetico servizio del telegiornale con titolo “un nuovo sbarco di profughi a Lampedusa”. Non abbiamo l'immagine canonica degli alieni sviluppati tecnologicamente che scendono trionfanti dalla nave proclamando “veniamo in pace”, non sono Visitors. Non hanno neanche l'aspetto grottesco dei cervelloni di Mars Attack, però! Per essere degli alieni, sono molto umani.
Nessuno ci spiega il motivo della loro venuta, sappiamo solamente che è necessario convivere con questa popolazione estranea alla nostra cultura e ai nostri costumi. La situazione ci è molto familiare, basti pensare al problema dell'immigrazione che ha occupato le prime pagine dei quotidiani mondiali da un secolo a questa parte. Per farla breve, i profughi intergalattici sono qui per restare e noi dobbiamo abituarci a questa situazione.

Questo mi porta a sviluppare una considerazione sulla forma.
Il film District9 non è altro che la fenomenologia di un tentativo di risoluzione di una problematica sociale, ossia quella dell'immigrazione. Il fatto che sia ambientato in Sudafrica non ci deve fare pensare ai Mondiali 2010 ma ad un problema, forse più oscurato che sottolineato da questo evento, come l'Apartheid. La pellicola ricalca una situazione storica del passato, la segregazione dei neri in Sudafrica, riproponendo il tutto grazie alla magia del cinema, seguendo la grandiosa intuizione di Tarantino nel suo ultimo film “Inglorious Basterds”. Ci è possibile cambiare la storia, anche solamente con il potere dell'immaginazione, e dare un esito differente ad un evento drammatico che ci ha colpiti nel profondo.
Il Sudafrica ha una “seconda chance” per rimediare agli errori del passato, invece incappa nella stessa identica problematica senza trovarne una soluzione.
La questione del “Distretto 9” come ghetto per rinchiudere le forme aliene non è la soluzione, questa forma di segregazione, come ci mostra il film, non è altro che un ricettacolo di violenza, criminalità e odio. La vera soluzione a questo problema è quella che, indirettamente, fornisce Wikus.

Il filosofo Leibniz ed, in seguito, Kant, ci parlano di una sensibilità che gli uomini hanno in comune. Il primo discute di questa facoltà espressamente per risolvere problematiche, il secondo affronta il tema nella Critica della facoltà di Giudizio per giustificare la comunicabilità dello stato d'animo di ogni persona. Entrami sono d'accordo su un passaggio: è necessario mettersi al posto dell'altro, sentire ciò che sente l'altro e partecipare del dolore altrui per comprenderlo nel migliore dei modi.
Wikus diventa alieno, si aliena (come direbbe Feuerbach) da se, muta il proprio corpo radicalmente, tanto che, nel finale della sua vicenda personale, preferisce mettere al primo posto la salvezza di quello che è ormai divenuto il suo popolo, piuttosto che curarsi da questa condizione che lo affligge.
Nella fenomenologia dell'immigrazione, Wikus ha saputo comprendere al meglio la situazione, cosa che prima della metamorfosi non era riuscito a fare, ed ha agito concretamente per risolverla. Wikus è il simbolo dell'integrazione razziale e District 9 ne racconta la storia.
Niente amore, niente alieni blu e niente lieto fine. Specialmente per Wikus.




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