martedì 12 ottobre 2010

Everybody loves Gianni Canova!

Vi segnalo per intero l'editoriale della rivista Duellanti diretta da Gianni Canova, famoso critico cinematografico, autore di una serie di testi di approfondimento su Lynch e Cronenberg di cui sono geloso possessore!
A quanto pare, lo stesso Canova possiede l'Occhio Scavatore (e ce l'ha pure più grosso del mio), scavando molto in profondità nell'industria cinematografica di cui è sempre stato uno dei protagonisti italiani.

A volte, anche gli amici sbagliano. A metà Luglio, in un intervento pubblicato su La Stampa, Steve Della Casa commentava con toni entusiastici la decisione di Marco Müller di dedicare la retrospettiva della Mostra di Venezia al cinema comico italiano, salutandola come un oggettivo “sdoganamento” dei cinepanettoni e della loro vitale comicità “fascennina”, che solo la critica “pensosa” non sarebbe in grado di comprendere e apprezzare.
Ora: io confesso che comincio a non poterne davvero più, in questo Paese, del disprezzo ostentato verso tutto ciò che ha a che fare con il pensiero. Parlando di critica, in particolare, la pensosità (cioè la capacità di riflettere, collegare, analizzare, interpretare...) dovrebbe essere una qualità costitutiva. Cosa vogliamo? Una critica giocosa? Lussuriosa? Gaudiosa? Facinorosa? Magari. Ma per esserlo, e continuare nello stesso tempo ad essere “critica”, la critica stessa non dovrebbe mai rinunciare all'esercizio del pensiero. Anche a costo di apparire noiosa a Müller e all'establishment che l'ha voluto alla guida di Venezia.
Del resto, se e quando smette di essere pensosa, la critica rischia di incappare negli errori in cui cade Steve Della Casa nel suo articolo. Per esempio: nell'antica Roma i fescennini erano manifestazione di una comicità volgare ma plebea, autenticamente popolana, che ha ben poco a che vedere con la tradizione del nostro cinema comico. Il quale è invece perlopiù espressione di una comicità piccolo-borghese con un oggettivo sostrato razzista, sessista, patriarcale e conformista. Non sarà chic dirlo e scriverlo, ma io lo dico e lo scrivo lo stesso. E aggiungo che trovo molto discutibile la scelta di dedicare la retrospettiva della Mostra D'Arte Cinematografica di Venezia non alla riscoperta del cinema di ricerca, sperimentale e disturbante, quello che il mercato ha sempre osteggiato e marginalizzato, ma un cinema che -almeno in Italia- coincide con il mercato e lo monopolizza e lo fa suo, e che non ha certo bisogno di una retrospettiva pagata con denaro pubblico per essere conosciuto. Ma tant'è. Volesse essere veramente trasgressivo, Müller dovrebbe metterlo in concorso, un cinepanettone. O un film di Tinto Brass. Ma questo non lo farà mai. Non glielo farebbero fare. Quello che fa per far passare l'idea che non ci sia altro cinema che questo e che l'altro cinema sia noioso e comunista. Anzi: pensoso, vade retro.

Ogni tanto un'apologia della critica pensosa è utile per far capire che è questa la strata verso la quale ci si deve indirizzare per fare critica seriamente e con criterio. Al cinema non servono le recensioni, non servono i punteggi o le scale di merito, servono due occhi ed una pala per scavare.


lunedì 4 ottobre 2010

Incestuous - Il figlio bastardo di Freud e Nolan

Solitamente non faccio articoli del genere, ma questa volta vorrei contestare degli elementi che compongono la trama di un film che ha fatto molto scalpore (e molto successo): Inception di Christopher Nolan.

Premetto che, complessivamente, il film mi è piaciuto. Sono uscito soddisfatto dalla proiezione. Questo è assolutamente ininfluente al fine della mia analisi, però, per i pochi che se lo chiederanno, sapranno che non parto da preconcetti.
Un po' come avviene in Matrix, questa pellicola unisce grandiose sequenze d'azione ad un discorso teorico molto interessante. Nolan costruisce una vera e propria architettonica (elemento fortemente presente all'interno della trama) del cinema contemporaneo, strutturando la messa in scena in una serie di livelli differenti, analogamente alla struttura della coscienza umana.
La trama è intrigante e le potenzialità di un progetto come quello di Inception sono davvero infinite, purtroppo, secondo il mio modestissimo parere, non sono state sfruttate al 100%. Si sente moltissimo il peso degli anni che avanzano. Un film come questo, se fosse stato prodotto una decina di anni fa, sarebbe risultato rivoluzionario e avrebbe meritato (forse) l'appellativo che molti critici frettolosi continuano ad attribuirgli: capolavoro.
Inception non è affatto un capolavoro. E' un esperimento interessante, una variazione ad un tema che negli ultimi anni sta prendendo molto piede all'interno della cinematografia mondiale, specialmente hollywoodiana. Forse i film esplosivi non rendono più come prima, avendo sfruttato fino all'osso il genere dell'action movie fino a renderlo una pagliacciata (consapevole) alla Expendables, per cui tra le esplosioni si cerca di inserire qualche elemento nuovo. Il film di guerra ha stufato, proviamo a trasportare la guerra su un differente piano.
Come abbiamo iniziato a vedere negli articoli precedenti, ma vedremo meglio sicuramente in seguito, i Wachowski con Matrix hanno costruito un ponte tra il mondo virtuale e quello reale. Molte esplosioni, effetti bullet-time e cazzotti, ma anche una solidissima struttura filosofica che abbraccia l'intera cultura occidentale degli ultimi 500 anni.
Recentemente, è stato osannato allo stesso modo il film di James Cameron che, utilizzando lo stesso stratagemma, ha creato un prodotto più “per famiglie” saccheggiando la trama di romanzi per ragazzi e lungometraggi animati, ma valorizzando il tutto con una serie di splendidi virtuosismi tecnici.

Inception è stato prodotto a distanza troppo ravvicinata da Avatar e Matrix. Vedendo questo film ho provato una sensazione di deja-vù costante. Addirittura la macchina con i cavetti che ti permette di entrare ed uscire da un sogno, per quanto questa idea possa essere terrificante da un punto di vista psicanalitico (ma ci arriveremo), rimanda moltissimo ai famosi “jack” che vengono utilizzati da Neo e compagni per collegarsi e scollegarsi da Matrix.

Devo apprezzare il fatto che Nolan, a differenza dei Wachowski, non ha reso note le sue fonti di ispirazione. Non ha fatto la citazione furbona di Freud o parlato apertamente dell'Interpretazione dei  Sogni, evitando qualunque tipo di riferimento alla famosa dottrina psicanalitica. Purtroppo, però, a meno che lo spettatore al cinema non sia A) ignorante totale o B) laureato in psicologia, il paragone nasce spontaneo. Ma dato che, né A né B sono la norma al cinema, nessuno si è permesso di muovere dei paragoni.
Iniziamo con una piccolissima e puntigliosa precisazione di carattere terminologico che, però, mi ha infastidito durante tutta la proiezione come una scheggia di legno nel dito. Il personaggio interpretato da Leonardo Di Caprio ed i suoi colleghi parlano spessissimo di una cosa chiamata “SUBCONSCIO”. Ora, io non sono laureato in psicologia, ma ne capisco abbastanza da sapere che il subconscio, in psicanalisi come in ogni altra possibile teoria del sogno, non esiste! Non è altro che una errata traduzione di INCONSCIO. L'errore, però, non è da attribuire al povero Nolan che, nel suo piccolo, ha sempre parlato di “subconscious”. In inglese, infatti, il termine funge da sempre come un sinonimo povero di “unconscious”. Lo stesso Freud, però, ha dichiarato : "We shall also be right in rejecting the term 'subconsciousness' as incorrect and misleading” poiché crea una gran confusione per nulla.

La critica più grande che voglio fare a questo film, però, è un'altra. Una critica strutturale.
Il film è intelligentemente organizzato a livelli, la messa in scena è coordinata al millimetro e le spettacolari sequenze d'azione ci trasportano in un mondo sempre diverso, come scatole cinesi. Addirittura, si ipotizza che uno dei sognatori possa fungere da architetto e modellare il materiale onirico a suo piacimento, ordinando, così come un regista (ed il paragone non è affatto casuale) l'immaginario delle persone.
Più ci si immerge nel ”subconscio” (…) e più le cose cambiano. Il tempo si dilata e si amplifica la portata degli effetti degli agenti esterni sul sognatore stesso. Una gocciolina d'acqua sul viso potrebbe suggerire alla mente lo stimolo del bagnato e sognare della pioggia, o un mare, o una cascata (o di andare al bagno). Andando sempre più in profondità si scoprono degli elementi, appunto, inconsci, come nel caso della moglie del protagonista che “sedimentano” nei suoi sogni da molti anni. L'elemento, veramente poco sfruttato, dei Totem.

Da questo si deduce che Nolan ha letto Freud, poiché già dai primi sogni analizzati si possono estrapolare queste nozioni.

Questi che ho appena riassunto sono, secondo me, i punti di forza dell'intera pellicola. Degli elementi sicuramente interessanti che hanno permesso al regista di creare una dimensione “di sogno” (e non “sognante”) hollywoodiana. Sono quelle cose che fanno bene al film, per dirla in breve, che lo rendono godibile.
Allo stesso modo, però, ci fanno capire che lo stesso Nolan ha arrabattato una serie di nozioni dal famoso testo freudiano e le ha organizzate a suo piacimento, dimenticando completamente il senso dell'intera interpretazione del sogno: il fatto che è, appunto, interpretazione. Ermeneutica, come ne parla Hegel, la nottola di Minerva. Non è possibile organizzare un sogno in maniera cosciente e viverlo da “sveglio”, poiché l'unico modo che abbiamo di penetrare il nostro inconscio è proprio nella sua interpretazione a posteriori, dopo che il sogno è avvenuto, per quel poco che ricordiamo. Il tutto tramite l'aiuto di un professionista, come, appunto, uno psicanalista.
Ora, caro Nolan, potevi creare ex novo una dimensione onirica come hanno fatto molti registi prima di te (vedi David Lynch in primis, che ci campa da molti anni con queste cose) oppure riprendere le nozioni freudiane ma senza interpretarle a tuo piacimento, attenendoti al piano, come nel caso del maestro Alfred Hitchcock (cito Psycho e Spellbound – Io ti salverò).

Inception, lo ripeto, è un bel film, ma non è affatto un capolavoro perché non ha gli elementi che lo caratterizzano come tale. Grandiosa la regia, le interpretazioni, gli effetti speciali, l'idea di fondo, ma non ha molta coerenza formale.

Un gran peccato.

martedì 28 settembre 2010

Inghilterra e Skinhead

Di film che trattano la cultura Skinhead ce ne sono svariati, tra i quali è doveroso citare “American History X” (con Edward Norton) e “Romper Stomper” (con Russel Crowe), che affrontano il tema del razzismo nei contesti sociali di Stati Uniti ed Australia. Il film che, a mio parere, si distingue dagli altri, seppure sia meno conosciuto di questi due sopra citati, è “This Is England”, ambientato negli UK, dove la cultura Skin nasce e sviluppa le sue frange disparate.

Inghilterra, estate del 1983. Margareth Thatcher definisce una nuova politica di estremo conservatorismo, della rimessa in gioco di valori sociali scomparsi da tempo, riletti dagli occhi delle frange più estreme. Questo è il periodo in cui si radicalizza il distacco tra le varie ideologie Skinhead.
E’ esattamente questo il contenuto del film, che racconta la storia del dodicenne Shaun (Thomas Toogose), orfano di padre morto in guerra. Inizialmente il ragazzo viene deriso dalla maggior parte dei suoi coetanei, ma, fuori le mura della scuola, farà amicizia con un gruppo di ragazzi con camicie a scacchi, bretelle e Dr Martens, capitanati da Woody. Shaun viene messo a suo agio e indirizzato al divertimento sfrenato, cambiando il suo modo di vestire e modo di pensare, guadagnando finalmente una ragazza (molto) più grande di lui e facendo conoscere alla madre la sua nuova cerchia di amicizie. Riesce finalmente ad essere felicemente spensierato, come ogni adolescente della sua età.
La prima svolta importante arriva con Combo, l’elemento destabilizzante della storia, un amico di Woody appena uscito da un periodo di detenzione durato 3 anni, il quale si impegna nel creare un gruppo di giovani alternativo, facendo leva sul malcontento sociale di quel periodo come xenofobia, precarietà e quant’altro, incarnando così lo stereotipo classico dello Skinhead di destra, razzista e violento. I 2 gruppi non andranno ovviamente d’accordo fin dal principio, Combo è un carismatico parlatore e si insinuerà nella mente di alcuni membri del gruppo di Woody, tra i quali Milky (un ragazzo di colore) e Shaun stesso, facendoli passare dalla sua parte.

Stop, pausa, iniziamo ad analizzare le carte in tavola: abbiamo due differenti gruppi di giovani Skinhead con due differenti ideologie alle spalle. Da una parte gli “Oi!” di Woody, dichiaratamente di sinistra, con il richiamo al divertimento, alle serate-cazzeggio, all’alcool e alla musica che ospitano, tra le loro fila, il giovane Milky, un nero, sottolineando come la loro ideologia si distacchi dal dibattito politico-razziale, come sarebbe naturale pensare vedendo un generico gruppo di SkinHead. Nel film l’intento violento del gruppo Oi! viene preso poco in considerazione (nonostante sia presente anche tra di loro) e questo credo venga fatto deliberatamente per sottolineare l’altra faccia della medaglia: il gruppo di Skinhead di Combo. Xenofobi ed estremamente conservatori, che lottano contro ogni sorta di immigrazione (nella fattispecie pakistana, sottolineata in 3 precisi punti del film), dove violenza e prepotenza sono all’apice di ogni azione e la strumentalizzazione politica regna sovrana.
Shaun si trova, così, in mezzo a 2 fuochi, ma, con lo svolgersi degli eventi, imparerà ad usare la testa in modo più che ragionevole, a districarsi infine tra le scelte giuste da prendere. Combo avrà un’influenza negativa su di lui, portandolo fin dalla sua giovane età nella frangia xenofoba della cultura Skin, ma il ragazzo inizierà ad aprire gli occhi pian piano e rendersi conto delle sue scelte errate e dell’influenza che Combo ha avuto su di lui e sui suoi amici.
La goccia che farà traboccare il vaso sarà una serata in cui Combo e gli altri si ritrovano in una stanza e, da una fumata d’erba in allegria si arriverà ad un pesante pestaggio di Milky da parte degli Skin.

Insomma, 2 British Independent Film Awards 2006 come miglior film e miglior esordiente (Thomas Turgoose appunto) e premio BAFTA 2008 come miglior film britannico, mica cacchi.
La pellicola prende spunto da un episodio passato della vita del regista, ed il suo intento è andato a segno, un perfetto dipinto di come l’evoluzione culturale di basso rango ha preso piede nell’Inghilterra degli anni 80, di come l’avanzare di ideologie sbagliate e xenofobe faccia breccia come se niente fosse negli animi inglesi, straziati da una politica troppo conservatrice e deludente, da una disoccupazione incombente ed una rinnovata forma di malriposto patriottismo. Fattore molto rilevante del film che ho sottolineato all’inizio, è il fatto che sulla bilancia con altri film che trattano l’argomento Skinhead, tutto sembra rappresentato con naturalezza ed attenzione ai dettagli, ai costumi e alle ambientazioni, a differenza di altre pellicole dove è facile ritrovare i soliti pessimi cliché e luoghi comuni.Se questo film è il capolavoro che è (a mio modestissimo parere, ma non credo io sia l’unico a pensarla così..) è proprio grazie a quel piccolo talento di Thomas Turgoose, primissimo film per lui giovane tredicenne nel 2006, nonostante i suoi lineamenti squadrati e un po’ storti, riesce a trasmettere tanto, anzi tantissimo, con l’intensità dei suoi occhi. Nella semplicità di certe sue frasi, traspare un ragazzo maturo intrappolato nel corpo di un bambino, la morte prematura del padre lo ha fatto maturare di botto rendendolo un vero e proprio ometto che ancora deve imparare le ingiustizie della vita.E ne imparerà molte in questo film… Non dico altro, lascio a voi la visione di questo eccellente This is England e ai posteri l’ardua sentenza, tanto io già l’ho data!

PS : Ah! Il film difficilmente si trova in italiano, quindi seguite il mio consiglio e vedetelo in Inglese coi sottotitoli in italiano, merita davvero tanto ;)
 

domenica 12 settembre 2010

La Matrice di Matrix

Matrix. Tutti hanno visto Matrix!
A non tutti, però, è piaciuto Matrix. A livello di fenomeno sociale è stato sicuramente più importante di Avatar, ma, nonostante questo, ha incassato molto di meno ai botteghini.

Parliamo un secondo di quello che c'è prima del film.
Mettiamoci nei panni dei Wachowski, due fratelli cresciuti insieme nella stessa casa, con gli stessi hobbies e gli stessi amici. Leggere fumetti, guardare cartoni in tv, giocare a D&D. Dei veri nerd d'eccezione! Lavorare in coppia non è mai una passeggiata, ma per due menti come le loro non può che essere una ricchezza. Non vi è contrasto, è come se la stessa persona avesse il doppio della creatività e inventiva. Per chi non lo sapesse, i Wachowski (Larry e Andy) sono la mente dietro a Matrix, ne hanno scritto il soggetto, la sceneggiatura e hanno preso le redini della regia, una volta che il progetto è ufficialmente sbarcato sul set.

Senza entrare nel dettaglio delle sequenze particolari, di cui ci occuperemo in futuro, dal film emergono due elementi fondamentali: il film d'azione ed il film riflessivo. Questa struttura dualistica alternata proviene dal background culturale condiviso dei fratelli ed in particolare dall'animazione giapponese.
Chi, come me, è appassionato di anime avrà sicuramente visto Akira e Ghost in the shell, due tra i maggiori capolavori dell'animazione nipponica. La peculiarità di entrambi questi prodotti, oltre alla loro ambientazione futuristica steampunk (per intenderci, quella “alla Blade Runner”) che li accomuna, sono le tematiche di rilevanza sociale che vengono alternate a sequenze di grande azione, come le corse in motocicletta di Akira ed i combattimenti di arti marziali.
In Matrix vediamo trasportati gli stessi elementi e le stesse tematiche. Le inquadrature ed i movimenti di camera sono propri della tecnica fumettistica cartacea e della più recente animazione e le sequenze dialogate sembrano estrapolate da un saggio di Baudrillard. Tral'altro, non soddisfatti del tutto, dopo la premiere di Matrix in Giappone, i Wachowski hanno collaborato con alcuni tra i più prestigiosi studi di animazione e hanno prodotto Animatrix, un piccolo gioiellino composto da 9 cortometraggi animati di cui parleremo molto presto.

Tutto questo potrebbe sembrare innaturale, da un certo punto di vista. Molti non hanno apprezzato il film poiché hanno pensato “non è ne carne, ne pesce”, le persone che sono entrate in sala per un film filosofico sono rimaste deluse dagli effetti speciali e dai combattimenti, mentre coloro che sono entrati solamente per le esplosioni e le belle pupe non hanno trovato soddisfazione, addormentandosi a metà pellicola. La realtà è che il film non vuole essere definito all'interno di un genere particolare, così come l'animazione giapponese che spesso e volentieri viene fraintesa quando esca dai suo confini d'origine, ma sfrutta quella tecnica tutta contemporanea del citazionismo per attingere da determinati modelli ma creando un prodotto nuovo ed unitario.
Cambiamo argomento per un secondo, parliamo di Tarantino.
Kill Bill. In molti lo hanno visto e, come per Matrix, in molti lo hanno snobbato o non compreso.
“Tarantino è un copione”, l'ho sentito milioni di volte da bocche inesperte di cinema che, seppur non capendo una virgola di grammatica filmica hanno apprezzato la pellicola (perché comunque Kill Bill è un film “attraente”, basta pensare che vi è una donna come protagonista).
Il background dei due autori è differente, se i Wachowski sono cresciuti con i fumetti della marvel ed i robottoni in televisione, Tarantino è rimasto con un piede negli States ed uno nel resto del mondo grazie all'ausilio della televisione. Film di Kung Fu, horror di serie B, spaghetti western, tutto quel genere di controcultura che, grazie a lui, oggi viene apprezzato anche in campo accademico.
La serie di Matrix e la serie di Kill Bill non sono poi troppo differenti dal punto di vista formale. Il citazionismo sia contenutistico che tecnico portano un messaggio nuovo e non si limitano a riprodurre manieristicamente un film degli anni '80 o un vecchio cartoon.

Tornando al nostro Matrix, percepiamo durante tutta la durata della pellicola (parlo ancora del primo film) una ventata di progresso, sempre con un occhio rivolto al passato. Così come l'Angelus Novus di Paul Klee, ripreso da Benjamin nel suo saggio "Sul concetto di storia", vola nel futuro con la speranza messianica di una rivoluzione e di un cambiamento rispetto alle macerie del passato, Neo riassume nella figura dell'Eletto questa attesa messianica e questa vera e propria rivoluzione (marxista) nel mondo del futuro.
La stessa tecnica del bullet-time brevettata nella famosissima sequenza d'apertura e mantenuta viva e agente per il resto della trilogia, segna un passo avanti per la cinematografia mondiale. Non è solamente un miglioramento degli effetti speciali, ma un nuovo modo di concepire il cinema d'azione, così come oggi, a distanza di soli dieci anni, Avatar ha cambiato gli standard ancora una volta.

Per quanto è ricca la trilogia di Matrix, potrei dedicare tutto un blog solamente alla sua analisi ! Ma non credo che sia il caso... per oggi è tutto!

Ps: Il signor Andy Wachowski ora è ... hem... la signorina Lana Wachowski :D

domenica 5 settembre 2010

Bigiox Revolution!


Ho recentemente acquistato dal sito Play.com, una risorsa incomparabile per noi cinefili, uno dei “cofanetti” che ho sempre sognato di possedere: The Matrix Ultimate Collection. Io adoro Matrix, non solo il primo episodio, adoro tutta la trilogia. Addirittura, al momento della sua uscita, ho apprezzato i dialoghi del secondo più di quelli del primo!

Che voglio farci allora, oltre che esibirlo come un trofeo di caccia sul comodino? Dato che questo cofanetto è ricchissimo di materiale, making of e approfondimenti sul panorama culturale che ha generato il fenomeno Matrix, mi piacerebbe lavorare su livelli differenti. Da un lato magari concentrarmi antropologicamente sul contesto in cui Matrix si è sviluppato, ossia entrare nella testa dei visionari fratelli Wachowski per comprendere il movente che li ha spinti a creare un prodotto tanto complesso. Dall’altro lato mi piacerebbe approcciare l’analisi dei film in maniera seria e professionale, tenendo sempre presente che “genere” di film ho di fronte. Per farmi capire, non tratterei mai Matrix Reloaded o un episodio degli Animatrix come tratto i film di Hitchcock su cui devo lavorare per la tesi. Bisogna tenere sempre a mente l’evoluzione del cinema ed il suo carattere fondamentale di temporalità che, spesso, la critica tende a dimenticare, scambiando delle banalità per capolavori ed ignorando le vere perle di innovazione che l’industria ci propone.

E’ un progetto che mi piacerebbe portare a termine perché, come ho detto, il mondo di Matrix è molto complesso e lo è su molti livelli differenti, essendo una forma ibrida perfetta tra l’action movie e la pellicola da cineforum e vale la pena capirci qualcosa.

Approvate o non approvate?
Vi piace Matrix? Solo il primo o anche gli altri?
Fatevi sentire!



sabato 14 agosto 2010

Ostello o bordello?

Dal titolo burlone avrete capito che, per un “compito a casa”, sono stato costretto dalle circostanze a vedere di seguito Hostel e Hostel 2 del prode Eli Roth, il nuovo visionario del gore che lavora ormai da qualche annetto sotto l'ala del padrino Quentin Tarantino.

Ne ho sentite un sacco su questi film e, istintivamente, non sono per niente portato a vedere gli horror contemporanei appena escono al cinema per delle motivazioni che, se ne avrete voglia, saranno chiare una volta che il “compito a casa” sarà concluso (e pubblicato...ma shh). Ricordo il polverone che hanno provocato queste pellicole, ricordo proteste da parte dei vari comitati genitoriali, divieti ai minori e minori che se ne fregavano dei divieti, insomma, le solite storie che in Italia sentiamo quando esce un nuovo prodotto sanguinolento e allettante come questo.
Il genere horror attira il pubblico e questo non è affatto un mistero, specialmente per gli addetti ai lavori. Il mistero è il perché piaccia così tanto. Riflettete. È lo spavento ad attirarci al cinema? Il sobbalzo dalla sedia, oppure il ribrezzo davanti a corpi mutilati? Cos'è che ci piace nel dispiacere?

Hostel ci esemplifica, così come ogni film horror che si rispetti, le dinamiche dello spettatore al cinema che guarda un film dell'orrore. Questo film, come il suo sequel e come molte altre pellicole simili, fa parte di un genere particolare che ha visto la sua nascita ed il suo sviluppo in quest'ultimo decennio: il Torture Porn. Vi chiedete, che c'entra con il porn? Non potevano chiamarlo torture movie? Eh no. C'entra eccome per due motivazioni diverse.

- La prima, contenutistica (ossia che riguarda gli eventi raccontati dal film), è che alle scene di torture esplicite sono spesso affiancante delle scene di sesso. Non potrebbe esserci film più adatto di Hostel per evidenziare questo elemento, infatti la trama è fondamentalmente divisa in due parti. Nella prima degli studenti americani in vacanza si divertono ad Amsterdam tra droghe e sesso, nella seconda, dei facoltosi imprenditori da tutto il mondo si divertono con gli studenti, tra motoseghe e trapani.
- Questo ci porta direttamente alla seconda motivazione del termine torture porn, quella formale, ossia il godimento. Gli studenti se la spassano, i carnefici provano il proibito piacere del sangue e lo spettatore, a sua volta, si sente eccitato nel seguire le vicende erotiche dei protagonisti e allo stesso tempo la loro tragica fine. Si potrebbe esagerare e dire che l'horror non sia altro che una diramazione del porno, specialmente nella sua accezione contemporanea di torture porn. Anche se, con Hostel, si assiste ad una sproporzione, probabilmente voluta da Roth, che nel resto dei film di genere non accade.

Altro esempio. Il vampiro è sempre stato uno dei simboli universali del film dell'orrore, fin dal Dracula di Browning con Bela Lugosi. Questo personaggio dell'immaginario fantastico è caratterizzato dal suo vivere al limite tra la vita e la morte ed ha sempre agito tramite una commistione di seduzione e violenza nei confronti delle sue vittime. Lo sguardo ammaliante, il bacio sul collo ed il morso sono elementi che si trovano in bilico tra il sesso e la morte, l'eros ed il thanatos. Freud troverebbe pane per i suoi denti nel leggere il romanzo dell'irlandese Bram Stoker sul conte più famoso della Transilvania.
Nella rappresentazione filmica del vampiro (ricordo anche Nosferatu di Murnau, dove tutto è molto più sottile e la messa in scena è deliziosamente espressionista) la venatura “porn” del film horror rimane nascosta, per non tradire la sua origine, e non viene mai resa esplicita come nel caso del più recente Twilight o del serial televisivo True Blood.
Oh, Bigio ce l'ha con Twilight! Non ce l'ho con Twilight, anzi, credo che nell'operazione di “riesumare” il vampiro abbiano fatto centro. Il cinema (e la letteratura in questo caso) si evolve, i tempi cambiano e di film sui vampiri in stile Anne Rice ve ne sono a bizzeffe. Quelli della saga della Meyer rappresentano quanto sia vuoto e superficiale il mondo degli adolescenti di questo periodo, la lotta tra due creature mitologiche quali i vampiri ed i lupi mannari, carichi di simbolismo e misticismo del passato, si risolve nella questione amorosa tra Bella ed i due simpatici amanti forniti di addominali scolpiti (e brillanti) e ciuffi emo.

Come direbbe Eddie Vedder: It's evolution, baby! Ed il nostro Occhio Scavatore deve rimanere al passo con i tempi.

PS: Se volete farvi due risate, date un'occhiata al trailer qua sotto. Riassume il mio discorso in pochi minuti e lo rappresenta in una maniera dannatamente più efficace :D Lesbian Vampire Killers. Enjoy!





domenica 18 luglio 2010

Zombie, sopravvivenza e comportamento umano


Il mito dello "Zombie" occidentale non ha più nessuna attinenza con quello del folklore Haitiano, dove per Zombie ci si riferiva a chi veniva manipolato da particolari sacerdoti che facevano cadere in stato catatonico le persone, controllandone l'anima grazie ad un rito Vudù (Wikipedia Docet); col passare degli anni infatti il mito è stato occidentalizzato ed inglobato nella nostra cultura grazie alla cinematografia in primis, ma anche a libri e videogiochi che trattavano l'argomento. Se si pensa allo Zombie si pensa al morto vivente, quello che in una notte "buia e tempestosa" esce fuori dalla sua tomba in un tetro cimitero, che cammina sbilenco con un colorito bianchiccio, brandelli di vestiti e carne penzolanti, che fa strani e a volte stupidi versi e, ovviamente, affamato insaziabilmente di carne umana. Lo stereotipo dello Zombie viene descritto nei film di George Romero, rendendo celebre quest'icona dell'horror in “La Notte dei Morti Viventi” del '68 e, 10 anni dopo, nel '78, col forse più famoso “Zombi” (Dawn of the Dead). Nonostante i suoi non furono i primi film che trattarono l'argomento, oserei dire che è proprio grazie a lui che questo fenomeno cinematografico ha preso piede, Italia compresa con i capolavori (e non) di Lucio Fulci. Dal classico Zombie poi se ne sono derivate delle varianti negli ultimi anni (a volte di infima qualità), quali ad esempio “The Mad” del 2007 dove chiunque mangiava un particolare Hamburger si trasformava in Zombie cannibale, oppure in “28 Giorni Dopo” (2002) ed il suo sequel “28 Settimane Dopo” (2007) dove i lentissimi Zombie sono rimpiazzati da malati di Rabbia che corrono come dannati e squartano come mietitrebbie.. Insomma, le trame di fondo sono le più disparate, molte volte si cerca una causa "originale" per giustificare il morbo-Zombie, ma gira che ti rigira si finisce sempre nel solito film dove un gruppo di superstiti cerca di sopravvivere mentre vengono serviti i soliti piatti a base di sangue e carneficina. Pochi sono i film che invece trattano l'argomento in modo VERAMENTE originale, cercando di mettere al di sopra del concetto sopra citato una trama ben costruita e congegnata.

Ho sempre pensato che negli Zombie-Movie ci fosse qualcosa che ci rispecchia nel profondo, mi riferisco ai sopravvissuti, ai personaggi dei film ancora sani ed alle loro meccaniche di sopravvivenza, dalle più prudenti e ponderate a quelle più violente ed istintive, riescono sempre ad attrarci ed affascinarci, perché sono sicuro che a chiunque è capitato almeno una volta di provare ad immedesimarsi ad un sopravvissuto di uno di quei film. Credo sia il fatto stesso di esser costretti a vivere in una società che non è più tale, di vedere come le convenzioni morali e sociali crollino sotto gli smembramenti di un orda di morti viventi (LoL ho fatto la rima), non ci sono più regole, si è costretti a sopravvivere scappando, nascondendosi, e se necessario combattendo ed uccidendo chi è già morto. Avresti mai pensato tu, Mario Rossi, di dover staccare la gamba di un tavolino per spaccare qualche cranio mentre cerchi di farti largo fuggendo? E Mario, dimmi, avresti mai pensato di vedere la città in cui sei cresciuto deserta, senza più macchine, con gente barcollante che cammina guardando nel vuoto tra uno schizzetto di sangue qua e là? No Mario, non credo.
Si lo so lo so, sto facendo di tutti gli zombie-movie uno stereotipo generale, soprattutto dei B-movie queste caratteristiche “classiche” si ritrovano sempre, ma è necessario per arrivare al punto chiave della questione: vi siete mai chiesti DAVVERO come vi comportereste se foste COSTRETTI ad affrontare tutto questo?
Perché molto spesso capita pensare “Ma guarda quello che bastardo, poteva aiutarla!” oppure “Ma perché è andato lì?! Idiota ora ci finisce secco!” o ancora “Io non riuscirei a sparargli..” e così via; io credo che nessuno di noi può giudicare davvero le azioni e le decisioni di questi personaggi, perché si trovano davvero in una situazione del tutto particolare, certamente impossibile nella realtà, ma comunque assurda, impensabile, che travolge inaspettatamente senza dare il tempo di rendersi conto.E appunto per questo mi chiedo, sono tanto fuori dal mondo certi comportamenti? L’umanità e la compassione rimarrebbero immutati negli animi delle persone? La sopravvivenza porterebbe una tranquilla casalinga a sparare in fronte ad uno Zombie? Si acquisterebbe la freddezza e la lucidità per fare ciò che è necessario per sopravvivere?
Io ho notato che, a parte il classico gruppo di sopravvissuti che va girovagando in cerca di un rifugio o un classico supermercato, possiamo distinguere 2 tipi di sbalzi comportamentali: lo Squilibrato e l’Illuso.
Mi spiego meglio: Lo Squilibrato è colui che rendendosi conto della situazione che ormai si è creata, la sfrutta, coglie la palla al balzo per liberarsi una volta per tutte delle convenzioni morali a cui si è sottoposti normalmente, e a mio modesto parere lo Squilibrato è colui che cercherà il Divertimento in una situazione del genere. Certo, la priorità è sopravvivere, ma come dimenticare il gruppo di motociclisti che razzia e uccide divertendosi in "Zombi"? Oppure i cecchini in "Day of the Dead" che si divertono a sparare a determinati morti viventi semplicemente per “ammazzare” il tempo? Alla fine lo Squilibrato può far suo un mondo che prima non lo era, può liberare ogni suo desiderio e, perché no, frustrazione repressa: le case son da razziare perché ormai desolate, le strade sono libere e quindi percorribili nel modo che si vuole, i negozi sono di libero accesso, idem per le armi, e si ha la possibilità di UCCIDERE, istinto che dell’uomo ha sempre fatto parte ma che, per fortuna, raramente viene fuori in questa società. Ma la società non è più la stessa, il mondo è cambiato e ormai ognuno è guidato dal suo libero arbitrio.
L’Illuso invece è quel personaggio che nonostante l’essersi reso conto che la piaga e gli zombie dilagano, cerca di mantenere una calma anormale, s’illude che la situazione è sotto controllo, magari barricandosi in casa, e cercando di vivere nel modo più normale possibile, nell’illusione che la minaccia “Esterna” non potrà mai intaccare le solide assi inchiodate sulla porta.Attenzione perché l’illuso purtroppo è portato a vivere così, molto spesso dal tempo che passa e dall’impossibilità di cambiare le cose, si ricordi in "28 Settimane Dopo", ad inizio film, il gruppo di rifugiati nella casa che ormai cercavano di sopravvivere nel modo più “Normale” possibile, oppure in "28 Giorni Dopo" ancor meglio, il Padre e la Figlia che vivevano barricati all’ultimo piano del palazzo.Il problema è che difficilmente la figura dell’Illuso sopravvive, se non c’è qualcosa che intacchi l’alone di “Normalità” che si è creato intorno a se stesso, infatti riferendomi ai 2 film appena citati, nel primo finirà male dato l’improvviso assalto di Zombie-Rabbiosi, e nel secondo invece riusciranno a scamparla, grazie al fatto che i protagonisti riescono a mettersi in contatto con padre e figlia, i quali tappati nella loro casa erano costretti a vivere quasi nella norma, in attesa di qualcuno o qualcosa che gli facesse cambiare quel malsano status quo.
Quindi ormai in un mondo così diverso è difficile trovare anche qualcosa di Normale o Giusto nei comportamenti che acquistano i sopravvissuti.. E’ vero che questi cercano di trovare una soluzione momentanea per trarre in salvo la loro vita, ma è anche vero che durante questa ricerca e questo percorso sono costretti a fare cose indicibili se considerati nella loro vita precedente, dove il mondo non conosceva la piaga degli Zombie. Quindi, per concludere, quali sono alla fine gli istinti reali? Quali i comportamenti giusti da attuare? Non basta aiutarsi e aiutare chi ne ha bisogno. Gli Zombie sono bastardi, ti costringono in situazioni in cui è necessario prendere decisioni “sbagliate” ma FORSE giuste in quel momento, ti costringono a uccidere, è inevitabile.
Sinceramente non mi meraviglierei a vedere che un nostro amico che normalmente è mite e riservato possa diventare un maniaco assassino, o al contrario che un amico a cui non daresti tanto credito potrebbe alla fine salvarti la vita in situazioni pericolose. La risposta possiamo averla solo vivendo una situazione del genere, ma ovviamente è impossibile, quindi chissà.. Rimarremo col dubbio di come potremmo “trasformarci” in un mondo invaso da morti che camminano, magari in uno di loro.. Chissà..

Il Trailer postato qui sotto è di uno dei film che, a mio modesto parere, tratta nel modo più divertente il tema degli Zombie, dissacrandoli completamente, e no, non è "L'Alba dei Morti Dementi" ma "Fido" dove dopo anni di guerre contro i non morti, uno scienziato inventa un collare che trasforma gli Zombie in pacifiche creature adatte ai lavori più comuni di casa, rendendoli praticamente delle Colf. Da vedere :)



venerdì 16 luglio 2010

Ancora alieni e ancora alienazioni


Lo avevo promesso, non ho avuto troppo tempo per farlo prima ma, per una fortunata coincidenza, ho acquistato il Dvd di questo film a pochi spicci ad un mercatino e mi sono convinto a parlarne in modo adeguato.

É cosa risaputa che gli Oscar ti fanno “rosicare”. A meno che tu non sia un fanatico del mainstream (e spesso neanche quello ti salva) oppure un pecorella cinematografica, il tuo film favorito non vincerà mai la statuetta dorata. Nel mio caso, ancora più radicale da alcuni punti di vista, ho sempre visto perdere miserabilmente le pellicole che più avevo apprezzato nel corso dell'annata cinematografica. Spesso alcuni film non ci sono neanche mai arrivati agli Oscar. Ma va bene.
Quest’anno il panorama degli Accademy Awards ci prospettava una sfida molto interessante, forse troppi film meritevoli in concorso, per motivazioni disparate.

Il colosso della tecnologia con gli alieni blu, il film della regista donna impegnata politicamente, la ribalta delle minoranze aliene in Sudafrica, il “capolavoro” di Tarantino, una scabrosa passeggiata nei bassifondi della cultura afro-americana negli USA, ribalta di attori sfigati ed il blockbuster lacrimone della Pixar. Non si direbbe, ma sono tutti film che ho molto apprezzato!
Io però punto sempre sul cavallo zoppo, è una delle mie caratteristiche, e quest'anno è toccato al caro e bistrattato: District 9.


 Avevo pensato di parlare di questo film, confrontandolo con la sua “nemesi” Avatar, ma sarebbe troppo riduttivo, per cui dedicherò solo poche righe a questo argomento.
La prima impressione che ho avuto di District 9 è stata “Wow, se Cronenberg avesse letto la sceneggiatura di Avatar, ne avrebbe tratto queste conclusioni!”. I due film hanno molto in comune, ma sviluppano le stesse tematiche in maniera molto differente.
Il discorso di Cameron rimane collocato all'interno dell'estetica della perfezione mentre questa produzione indipendente scende in profondità e non si lascia accecare dalla possibilità di un lieto fine hollywoodiano. Mi spiego meglio.

Entrambi i protagonisti del film si muovono (uno liberamente, l'altro coattivamente) tra l'umano ed il sovrumano. Il soldato che sfrutta le nuove tecnologie per perfezionarsi tramite il suo gigantesco avatar alieno si trova nella stessa posizione del povero impiegato che muta, ora dopo ora, dalla sua condizione di umano a quella di “fuckin' prawn”. Entrambi acquistano una diversa consapevolezza della propria condizione, si trovano a rivalutare le istituzioni che hanno supportato fino a poco tempo prima, le stesse che li hanno traditi e tentano di sopraffare la popolazione aliena. Razzismo, in pratica.
Il protagonista di Avatar vuole cambiare corpo, o meglio, vuole perfezionare il proprio corpo difettoso. In D9, invece, il protagonista viene derubato della sua condizione di soddisfazione (lavorativa, familiare e psicologica) per fare fronte ad un cambiamento sociale che coinvolge. L'integrazione razziale diviene integrazione corporea, fisica e patologica dell'individuo e diviene parte della razza aliena.

Perché ho pensato a David Cronenberg? Lui è il regista del “corpo” per eccellenza e District 9 è un film molto “fisico”. Come in “La Mosca”, il protagonista subisce una metamorfosi che viene rappresentata in maniera eccellente dall'apparato di effetti speciali della pellicola.
Questa metamorfosi, però, nel caso di D9 non è solamente fisica ma, come abbiamo accennato, sociologica. Wikus (Sharlto Copley), proprio perché rappresenta la diplomazia terrestre è costretto a “mettersi nei panni” degli alieni e quindi si immedesima nei problemi della loro razza. Ancora una volta, queste sono tematiche che vediamo trattate in Avatar (la stessa sequenza finale di lotta tra Wikus ed il cattivone di turno è molto simile all'epilogo di Avatar, data la presenza dei mecha robotici in entrambi gli scontri) ma il film di Cameron è meno attento alle dinamiche sociali e più intento alla creazione di una realtà parallela e fantastica dove lo spettatore possa vivere e dimenticare i propri problemi (non risolverli).


Ora, scaviamo un pochino nel territorio di District9 traendo qualche conclusione dai suoi elementi costitutivi.
Il film è innegabilmente un particolare sci-fi movie. Nonostante non si mantenga sulle tematiche dell'invasione aliena, proprie del genere, che sia pacifica o bellicosa. Infatti, gli alieni di D9 sembrano più dei naufraghi. La sequenza iniziale dove la spedizione terrestre esplora l'interno della mothership che si staglia sopra Johannesburg ci ricorda un ipotetico servizio del telegiornale con titolo “un nuovo sbarco di profughi a Lampedusa”. Non abbiamo l'immagine canonica degli alieni sviluppati tecnologicamente che scendono trionfanti dalla nave proclamando “veniamo in pace”, non sono Visitors. Non hanno neanche l'aspetto grottesco dei cervelloni di Mars Attack, però! Per essere degli alieni, sono molto umani.
Nessuno ci spiega il motivo della loro venuta, sappiamo solamente che è necessario convivere con questa popolazione estranea alla nostra cultura e ai nostri costumi. La situazione ci è molto familiare, basti pensare al problema dell'immigrazione che ha occupato le prime pagine dei quotidiani mondiali da un secolo a questa parte. Per farla breve, i profughi intergalattici sono qui per restare e noi dobbiamo abituarci a questa situazione.

Questo mi porta a sviluppare una considerazione sulla forma.
Il film District9 non è altro che la fenomenologia di un tentativo di risoluzione di una problematica sociale, ossia quella dell'immigrazione. Il fatto che sia ambientato in Sudafrica non ci deve fare pensare ai Mondiali 2010 ma ad un problema, forse più oscurato che sottolineato da questo evento, come l'Apartheid. La pellicola ricalca una situazione storica del passato, la segregazione dei neri in Sudafrica, riproponendo il tutto grazie alla magia del cinema, seguendo la grandiosa intuizione di Tarantino nel suo ultimo film “Inglorious Basterds”. Ci è possibile cambiare la storia, anche solamente con il potere dell'immaginazione, e dare un esito differente ad un evento drammatico che ci ha colpiti nel profondo.
Il Sudafrica ha una “seconda chance” per rimediare agli errori del passato, invece incappa nella stessa identica problematica senza trovarne una soluzione.
La questione del “Distretto 9” come ghetto per rinchiudere le forme aliene non è la soluzione, questa forma di segregazione, come ci mostra il film, non è altro che un ricettacolo di violenza, criminalità e odio. La vera soluzione a questo problema è quella che, indirettamente, fornisce Wikus.

Il filosofo Leibniz ed, in seguito, Kant, ci parlano di una sensibilità che gli uomini hanno in comune. Il primo discute di questa facoltà espressamente per risolvere problematiche, il secondo affronta il tema nella Critica della facoltà di Giudizio per giustificare la comunicabilità dello stato d'animo di ogni persona. Entrami sono d'accordo su un passaggio: è necessario mettersi al posto dell'altro, sentire ciò che sente l'altro e partecipare del dolore altrui per comprenderlo nel migliore dei modi.
Wikus diventa alieno, si aliena (come direbbe Feuerbach) da se, muta il proprio corpo radicalmente, tanto che, nel finale della sua vicenda personale, preferisce mettere al primo posto la salvezza di quello che è ormai divenuto il suo popolo, piuttosto che curarsi da questa condizione che lo affligge.
Nella fenomenologia dell'immigrazione, Wikus ha saputo comprendere al meglio la situazione, cosa che prima della metamorfosi non era riuscito a fare, ed ha agito concretamente per risolverla. Wikus è il simbolo dell'integrazione razziale e District 9 ne racconta la storia.
Niente amore, niente alieni blu e niente lieto fine. Specialmente per Wikus.




martedì 15 giugno 2010

Funny Sandler



Mi piace vedere film comici, forse l'ho anche già detto un paio di volte.
Non solo mi piace ridere, ma se la risata è accompagnata da una riflessione la cosa diventa veramente interessante.

Spulciando tra la filmografia recente di alcuni tra i più importanti attori comici di questo periodo è saltato fuori un film del 2009: Funny People. Molti dei miei amici lo avevano visto, io avevo anche tentato di farlo ma dopo un pochino mi ero stufato. Forse non era il momento adatto.
Fatto sta che ho ripreso in mano il dvd e mi sono concentrato su queste 2 ore di comicità americana, cosa ho scoperto? Non solo una commedia, ma un film che parla della comicità.

Ok, in breve, come sempre, rendiamo questa parte di “trama” una cosa veloce ed indolore così chiunque voglia vedere il film lo potrà tranquillamente fare senza dover pensare “Mh, il Bigio mi ha spoilerato tutto, che me lo vedo a fare?

Il protagonista, Adam Sandler, “The Sandman”, che interpreta un suo alter ego attore comico dal passato glorioso e dal futuro incerto, tale George Simmons. Questa mancanza di creatività viene accompagnata da un malessere che si rivela essere più grave del previsto, una malattia al sangue che potrebbe portarlo ad una morte certa entro poco tempo. George si ritrova costretto a mettere in discussione la sua intera esistenza e rivalutare ogni piccolo aspetto della sua carriera/vita privata con l'aiuto di Ira, giovane comico esordiente.
Sembra anche troppo semplice, una cosa banale, magari, vi chiederete voi, alla fine del film lui guarisce e trova una bella fidanzata per vivere felice e contento. Sarebbe banale se la trama si fermasse dove ve l'ho raccontata, in realtà questa serie di eventi si concludono entro la prima metà della pellicola. A mio avviso, però, la seconda metà risulta così pesante (proprio perché sembra una cosa “in più”) da risultare noiosa, nonostante sia la conclusione di una trama con degli sviluppi interessanti.



Non parliamo più di eventi, adesso, iniziamo a scavare.
Che ruolo ha la comicità in questo film? Sandler nel finale dice “Comedy, usually, is for funny people”. Ma è sempre così?
Da quanto si evince dalla storia, George, proprio come Ira, era una persona divertente. La sequenza introduttiva del film è un collage di una serie di homemade video del giovane Adam Sandler durante i suoi esordi su Mtv o SNL. Questo dimostra che, telecamera o meno, lui era un ragazzo talentuoso che non mancava un'occasione per fare battute o scherzi, inventare personaggi e situazioni assurde, per ridere e far ridere. Questo è essere divertente e divertirsi. La comicità è un'altra storia. George diventa un comico quando si vende all'industria della risata e diventa la star di alcune pellicole imbarazzanti dal punto di vista qualitativo. Quasi come i nostri cinepanettoni.
La differenza tra la “comedy” e le “funny people” ce l'abbiamo di fronte dall'inizio del film, poiché, proprio per la sua mancanza di entusiasmo, George si serve del talento giovane e creativo di Ira per rinascere. Si nutre del suo stupore per ogni nuova situazione e per la voglia continua di mettersi in gioco anche per ricevere uno spazio di due minuti su un grosso palcoscenico.
Un secondo elemento che ci permette di dividere questi due aspetti della comicità è la testimonianza del personaggio interpretato da Eric Bana, il quale aveva dei grossi pregiudizi su George, reputandolo un'idiota, deducendo il suo carattere dai film ai quali ha prestato il volto. Una volta conosciuto meglio e trascorso un'intera serata con lui dovrà ricredersi, lui è in effetti una “persona simpatica” e continua ad esserlo nonostante la sua carriera.

Il comico di professione perde l'aura della comicità, come direbbe Walter Benjamin, e si abbandona alla riproduzione tecnica della risata. Un processo meccanico, privo di qualunque originalità e valore storico.

Questo dualismo ci appare molto chiaro anche grazie alla presenza della malattia che affligge il protagonista. Nel momento in cui George guarisce da questa (sempre dicendo che potrebbe tornare da un momento all'altro) capiamo bene che qualcosa è cambiato anche nel suo modo di vedere le cose. Il George malato è il commediante privo di comicità, quello sano è la “persona simpatica” che di mestiere si diverte a far ridere la gente. Possiamo dire che riesce a guarire proprio grazie alle “cure” di Ira, talmente affezionato a lui che lo accompagna fino al momento di andare a dormire e continua a stargli vicino anche mentre dorme.
La comicità (e l'amicizia in questo caso) è la migliore medicina, questo film ce lo dimostra in più occasioni. Concludo citando la divertente sequenza (che non riesco a trovare su Youtube!) dove George e Ira prendono in giro il medico dall'accento svedese, trasformando una drammatica visita ospedaliera ad un malato quasi terminale in una comica che si conclude, appunto, con l'affermazione del medico verso Geroge : “You're a funny man”.


giovedì 10 giugno 2010

V per Visione




Parlando del film “V for Vendetta” bisogna premettere che non ci troviamo di fronte ad un comune action movie, ma a qualcosa di differente.
Il film dei fratelli Wachowsky fa parte di quella nuova generazione di pellicole che uniscono un virtuosismo tecnico ad una grande profondità di temi e contenuti. Queste vengono spesso premiate per la fotografia, il montaggio e la regia, ma poco compresi dal grande pubblico, in quanto trattano temi complicati e, alle volte, disturbanti. L’argomento che accomuna le produzioni di questi registi è, come in questo caso, la Vendetta.
Un secondo elemento che li associa è il costante utilizzo di citazioni. Tarantino è conosciuto dal pubblico come il regista delle citazioni, dagli spaghetti-western ai b-movie, dai primi horror italiani (Argento e Fulci) ai kung-fu movie degli anni 70 e 80. Basta prendere in esame il suo ultimo prodotto, Kill Bill, è una serie continua di scene prese in prestito da altri film. Molti lo apprezzano, ad alcuni non piace, ma comunque questa è la realtà e la cinematografia sta avendo buoni risultati grazie a queste pellicole.
Per parlare di questo particolare film (e non della graphic novel dal quale è tratto) mi piace sempre ripensare a quei pochissimi minuti del finale, dove viene espressa l’esplosività di questa pellicola. Ciò che, a mio avviso, lascia il segno, dopo la visione di “V for Vendetta”, è la potenza che sprigiona nelle singole scene, nell’uso dettagliato dei colori e delle luci, della musica e, ovviamente, della computer graphic. Come ho precisato in precedenza, la forza di questo genere di film è nella tecnica originale, grazie all’uso magistrale dei mezzi che il progresso ci fornisce.

Il film è devastante, è il manifesto di una rivoluzione su celluloide, è il genere di film che adoro. Una pellicola del genere riesce a comunicare in modo eccellente il suo messaggio, non lascia nulla al caso e al fraintendimento, è una vera e propria opera d’arte. E’ un film per coloro che non si accontentano di aprire la finestra di casa e osservare quello che li attende fuori, è per quelli che vogliono cambiare la realtà in cui vivono
Quando si aprono gli occhi per guardare il mondo ed è proprio questo mondo che non ci piace, è giunto il momento di cambiarlo. V per Vendetta aiuta a chiarire le idee, specialmente ad un ragazzo adolescente che deve decidere in questi pochi anni quale sarà il proprio futuro.

Ci troviamo in una Londra futuristica, leggermente retrò, di chiarissimo stampo orwelliano. Apprendiamo dal televisore acceso in camera dei due protagonisti che gli Stati Uniti d’America non esistono più, a causa di una grande guerra civile che ha portato al collasso la superpotenza. Nell’Inghilterra di questo ipotetico futuro prossimo vige una dittatura totalitaria. Lo slogan di propaganda di questo “Grande Fratello” è : “Unità attraverso la Forza; Forza attraverso la Fede“. Apprendiamo in seguito che ogni singola figura del governo è controllata da un consiglio superiore, presieduto da un dittatore: l’alto cancelliere Adam Sutler. L’informazione, la religione, la polizia ed i castigatori, una squadra di vigilanza segreta molto simile alle SS naziste o alle nostrane Camice Nere, sono gestiti dalla dittatura che si occupa di creare un clima vivibile per la nazione, nascondendo il totalitarismo dietro la maschera di una democrazia. Nonostante i vari tentativi del regime, i cittadini di Londra hanno il sospetto che la loro libertà sia minacciata e le squadre di repressione rinchiudono in campi di prigionia le minoranze etniche, religiose e sessuali.
In questo contesto si inserisce la figura di “V”: il protagonista senza nome e privo di un volto, salvo per la sua maschera, che riprende le fattezze del rivoluzionario inglese Guy Fawkes. L’identità del personaggio è celata in ogni suo piccolo particolare, infatti, la maggior parte delle frasi che pronuncia all’interno di film sono delle citazioni. Lui stesso non è altro che un grande riferimento, la rappresentazione vivente di un ideale più grande, come viene spiegato al termine della pellicola: “Era Edmòn Dantés. Ed era mio padre e mia madre, mio fratello, un mio amico, era lei, ero io, era tutti noi”. Non si è voluto dare al personaggio di V un’identità innovativa perché lui stesso è il frutto della società in cui vive e la racchiude completamente, nei lati positivi ed in quelli negativi. Ci ricorda quel solitario Fantasma dell’Opera, rinchiuso nel suo sotterraneo, ma non quello dell’Operà Populare di Parigi, bensì una zona nei pressi della metropolitana londinese, il quale ardisce una congiura contro il governo.

Scocca la mezzanotte, inizia così il 5 di Novembre, giorno di rivoluzione, il giorno della congiura delle polveri.
La Vendetta ha inizio, è il primo atto dell’opera, appunto, l’Ouverture.
Suonano le campane e dal nulla si espande una musica travolgente; V ed Evey si trovano sul tetto di un palazzo, ed il direttore di questa orchestra improvvisata è pronto per cominciare. Tiene il tempo con la bacchetta e solo dopo pochi secondi di attesa arriva il tanto bramato crescendo: il palazzo dell’Old Bailey esplode. Nel caos più totale risuona la musica di Tchaikovsky, l’Ouverture 1812, tema musicale più che caro alla rivoluzione russa, gli strumenti a percussione si confondono con le esplosioni e con mille fuochi artificiali di colori accesi, crolla una parte della tradizione inglese che rappresenta ormai solamente la dittatura.
Questo primo atto terroristico di V innesca automaticamente nello spettatore una domanda : Ma è realmente giusto tutto questo? Con il pretesto di una rivoluzione è possibile infrangere una legge morale, come può essere il “non uccidere”? Il quesito riuscirebbe a metterebbe in crisi il filosofo tedesco Immanuel Kant, colui che ha chiarito il problema della morale una volta per tutte nella sua “Critica della Ragione Pratica”, ma che ha parlato anche esplicitamente di diritto nella "Metafisica dei Costumi".
La tradizione filosofica britannica (ed in seguito americana), sul tema politico e delle libertà ragiona in maniera differente da quella tedesca, infatti, a partire dagli albori della rivoluzione inglese ci troviamo di fronte ai testi sul liberalismo e sulla tolleranza religiosa di John Locke e quelli utilitaristici di John Stuart Mill. Locke anticipa il pensiero politico della rivoluzione americana dichiarando con fervore quali siano i diritti dell’uomo, tra cui il diritto alla rivoluzione.
Dall’esperienza visiva di V for Vendetta apprendiamo che V è un convinto liberalista e la sua identità di terrorista o rivoluzionario, come viene definito dal governo inglese, diviene quella di un vero e proprio eroe e patriota, com’è lo stesso Guy Fawkes agli occhi del popolo inglese. Che V sia un convinto “Jeffersoniano” lo attesta una delle numerose citazioni, che, ironia della sorte, è divenuta la più famosa dell’intero film, nel quale esclama “Non sono i popoli a dover aver paura dei propri governi, ma i governi che devono aver paura dei propri popoli”. Da un punto di vista ontologico il film è permeato dall’idea nietzschiana del “Distruggere per Ricreare”, dove creare un mondo diverso è possibile (anzi, necessario) ma prima di tutto bisogna distruggere quello in cui viviamo.

Un elemento costitutivo dell’intera vicenda è quello che maggiormente mi ha colpito, la domanda che mi sono posto durante il film, quando la Vendetta stava per compiersi e la rivoluzione era quasi conclusa. Una volta che il vecchio governo crollerà, sarà lo stesso V a prendere il comando dell’intera nazione? Commetterà anche lui lo stesso sbaglio che commise Oliver Cromwell dopo la rivoluzione inglese? Speravo con tutto il cuore che questo non avvenisse e, per fortuna, il mio dubbio venne chiarito nelle scene finali.
V salverà l’Inghilterra dal regime totalitario, ma, allo stesso tempo si accorgerà di non essere adatto al nuovo mondo che lui stesso ha contribuito a far nascere. Lui, il figlio di una dittatura, è stato forgiato dal fuoco della Vendetta, esposto a diversi esperimenti da parte del governo, questo ha fatto crescere il germe dell’odio. E’ un mostro, se lo vogliamo guardare da questo punto di vista, ed è così che Evey lo chiamerà dopo averlo conosciuto in modo accurato.
E’ memorabile il confronto tra i due protagonisti nel momento in cui prendono consapevolezza dei propri veri sentimenti, quando aprono finalmente gli occhi per guardare il mondo. V scopre l’Odio e la Vendetta attraverso il fuoco e le fiamme di un grande incendio, Evey viene bagnata dalle fredde lacrime del cielo di Londra che implora di essere liberato dal grigio che la opprime, in questo modo lei stessa diviene la luce di un nuovo futuro per il mondo. È lei la vera erede di V, colei che ancora riesce a giudicare ingiusta un azione di vendetta e che mantiene una propria morale, solo lei avrà le capacità di comunicarle al mondo. V non è altro che un messaggero, lui ci annuncia un mondo nuovo, è Zarathustra, ma sicuramente lui non farà parte di questo futuro perché appartenente al passato, proprio come la dittatura. Non è un caso che nella notte del 5 Novembre V distrugge il Parlamento e abbatte il governo, ma allo stesso tempo viene ucciso da questo ed esplode insieme a lui nel treno bomba diretto verso i sotterranei. Il futuro è in mano ad Evey, oltreuomo di un oltremondo, o semplicemente, speranza di un futuro migliore.

Ancora una volta si compie la Vendetta, pochi secondi e nuovamente tuona nell’aria la musica di Tchaikovsky, il bagliore delle esplosioni è accecante, finalmente il Parlamento è saltato in aria. Durante l’ultimo movimento di questa Sinfonia di Distruzione, l’intera Londra si toglie la maschera di V, non ne ha più bisogno, ora è libera.




Mi faccio perdonare del ritardo!



Purtroppo, in questo periodo di esami, tesi e pensieri vari non trovo il tempo per vedere un bel film e parlarne nella maniera in cui mi piacerebbe farlo.


L'Occhio Scavatore continua a vivere nella mia testa, è il terzo occhio sempre aperto che ho sulla fronte e continua nella sua opera di riflessione sul cinema e sul presente. Quello che circonda quest'occhio, ossia il corpo che lo contiene, non ha tempo per scrivere! Come fare allora?

In attesa di un nuovo scritto, vi propongo una cosa un pochino "attempata", l'ho infatti scritta per un concorso durante l'ultimo anno di liceo. Però, anche a quell'epoca l'Occhio scavava eccome, ve ne potrete accorgere da soli leggendo questo articolo su V FOR VENDETTA dei fratelli Wachoswky!

A presto!

martedì 4 maggio 2010

Yes Man o Über Mensch ?

Ci sono quei film che guardi per farti solo due risate e film che guardi per avere delle risposte.I primi sono “usa e getta” che solitamente non si vedono più di una o due volte, magari in compagnia di amici o in situazioni di festa. Per come la penso io, alcune di queste pellicole divertenti hanno la stessa valenza (occhio al termine) dei drammoni strappalacrime e degli splatter di cattivo gusto.
I secondi, invece, sono quei film di culto che si mantengono nel tempo, si ricordano perché segnano la vita di colui che li guarda. Il vissuto dello spettatore si unisce al prodotto filmico creando un forte evento nella coscienza. Vedere un gran film ti cambia, è inevitabile. Non sei più la stessa persona.

Nella prima categoria figura spesso l'attore Jim Carrey. Nella seconda, anche.
Oltre alle stra note doti comiche dell'attore americano, ultimamente abbiamo avuto il piacere di vederlo recitare in alcuni ruoli più profondi, spesso tralasciando anche la venatura divertente.
Per citare qualche titolo : The eternal sunshine of the spottless mind ; The number 23 ; The Truman Show e l'ultimissimo I love you, Phillip Morris, tutte pellicole di grande valore artistico sulle quali spero vivamente di potermi soffermare in seguito (e magari lo faccio pure). Per una questione puramente cronologica, però, mi piacerebbe parlare di un altro film che magari in molti hanno visto ma hanno facilmente sottovalutato: “Yes, Man!”

Questa pellicola è un classico esempio di “via di mezzo”, un po' com'è stato con Truman Show. Ha un lato di puro intrattenimento con alcune sequenze veramente spassose (“I really like Red Bull!”) e un'idea di fondo che stimola molto la riflessione.
Sintetizzando al massimo, questa è la storia di un singolo uomo che un bel giorno decide di cambiare vita e assumere come imperativo categorico il “Si” in ogni situazione possibile ed immaginabile. Moglie nuova importata dall'estero? Si. Lezioni di una lingua inutile? Si. Partecipare ad un tristissimo party a tema Harry Potter? Si!
Non importa il COSA, è necessario accettare.

In realtà è molto semplice come trama, alla lontana ci potrebbe ricordare Liar, liar oBruce almighty, sempre (non a caso) con Jim Carrey nei ruoli principali, per le modalità di sviluppo degli eventi, anche se in questo caso non c'è nessuna magia di fondo. La decisione del protagonista di dire di “si” a tutto ciò che la vita gli presenta è presa consapevolmente, forzando la propria volontà e cambiando radicalmente modo di vivere.
Proprio questa è la chiave per interpretare le intenzioni mature di questo film. Si differenzia contenutisticamente dalle classiche commedie paradossali americane dal fatto che gli eventi sono, in un certo modo, fuori dal comune ma niente è fantastico. Non è costretto da nessuno, potrebbe scindere questo patto da un momento all'altro, non c'è nessun elemento esterno che lo obbliga, nessuna fidanzata lo lascia (oddio, in realtà si, però è fondamentale per acquistare la consapevolezza) e nessun bambino conta su di lui per avere nuovamente una famiglia riunita e felice.

  • Il protagonista prende in mano le redini della sua vita inconsapevole e, per viverla al meglio, si basa su un concetto, un'idea, seguendola ciecamente in un primo periodo, per poi interiorizzarla completamente in un secondo momento. Il “si” rientra nella definizione kantiana del termine “formale” indicando la modalità (accettare sempre) ma mai il contenuto dell'azione da compiere, che varia in ogni caso. Questo primo momento della vita di Carl coincide con il primo tempo del film, dove il protagonista compie la scelta fondamentale di diventare uno YES MAN (allontanandosi dal suo stato attuale di NO MAN) senza neanche sapere di cosa si tratti, proprio perché necessita di un cambiamento di prospettive.
  • Il secondo momento implica, invece, una riflessione da parte di chi compie l'azione. Non c'è più la cieca fedeltà all'ideale, perché proprio questo è stato demolito dalle parole del “guru” del film (il fondatore degli Yes Man) per cui anche l'imperativo smette di essere categorico e viene, finalmente, posto sul piano del dubbio. Avviene in questo modo quel passo avanti che, a mio avviso, è fondamentale per comprendere il grande apporto “benefico” di questo film verso chi lo guarda. Carl accetta le possibilità dell'esistenza ponendosi in maniera positiva verso di questa, senza accettare tutto inconsapevolmente, ma neanche rifiutando ogni novità che gli viene suggerita. Ora lui ha le capacità per valutare il meglio all'interno di una situazione. Il “Si” è ormai parte di lui, non ha più bisogno di imporsi sulla sua volontà, perché questa si è automaticamente conformata al si.
    Carl ha detto “si alla vita” così come ci consiglia Nietzsche, ha ascoltato la sua volontà e ne ha fatto potenza.
Non vi nascondo che questo film mi è stato di grande aiuto, principalmente per quella che è stata la mia esperienza di vita, per cui la passione con cui ne parlo non è affatto “accademica” ma genuina e originaria. Spesso è facile ritrovarsi nelle situazioni di un film, magari dopo averlo visto, ci si fa una risata sopra. Yes Man è la fotocopia della mia vita. Non scherzo! Solo che, fortunatamente, l'ho visto  dopo aver diretto il mio personale “film” ed essere uscito fuori da una situazione da NO MAN in piena regola.
In secondo luogo rientra a pieno nelle tematiche etiche che sono solito trattare nei miei studi in filosofia, infatti, il “passo avanti” di cui parlavamo è molto simile a quello compiuto dall'etica fenomenologica rispetto a quella kantiana. Il merito di Husserl, padre della fenomenologia, nelle sue "Lezioni di etica formale", è stato quello di ridare senso all'esistenza. Di colmare nuovamente il contenuto dell'azione morale.
Non ha senso dire di si a tutto, questo lo si capisce benissimo dalle avventure/disavventure di Carl. E' solamente il primo passo questo, fondamentale per l'apertura verso la vita, è necessario però completare questa esperienza e rendersi protagonisti delle proprie scelte fino in fondo, senza lasciarsi accecare da un principio, per quanto “buono” possa essere. Parlo anche di guerre sante, fondamentalismi e di tutte quelle dottrine che chiudono gli occhi invece che aprirli definitivamente.
L'etica della scelta è presente nel finale del film, come aspetto conclusivo di un processo lungo e faticoso che implica una grande forza di volontà che anche un personaggio, apparentemente inetto, come quello di Carl riesce a trasmettere.

Jim Carrey, come sempre, riesce a farci ridere (e parecchio!) ma questa volta ci parla di noi stessi e di come è possibile cambiare senza lasciarsi andare. Vi segnalo una sequenza (click please!), veramente molto divertente, dove al protagonista viene rimproverato proprio il fatto di essere sempre stato un “morto vivente”.

venerdì 16 aprile 2010

Ommioddio Tuailaaaait!

Ricordo ancora un recente episodio di follia collettiva quando, durante la Festa del Cinema di Roma di due anni fa, ho visto passeggiare sul red carpet i due giovani protagonisti del film più atteso del millennio, dietro a sei file di ragazzine scalpitanti. Avatar? Il sequel di "Citizen Kane" diretto da un Orson Welles zombie? No, macchè... Twilight!
Non mi piace troppo Kristen Stewart. Non mi piace Robert Pattinson. E non mi piace neanche la saga di Twilight, se è per questo.

Però...c'è da dire che nel panorama cinematografico mondiale è sempre più comune parlare di adolescenti oppure parlare AD adolescenti. Che è ben diverso.

Prendo come esempio proprio la signorina Stewart che, durante la sua esordiente carriera, ha già attraversato entrambe le fasi ma, sfortunatamente per lei, si è arenata in quella fossa melmosa che è il cinema adolescenziale: i cosiddetti teen movie che tutti conosciamo bene. Infatti, oltre alla citata Twilight Saga (tre episodi cinematografici per ora), sarà co-protagonista di “The Runaways” con Dakota Fanning, l'odiosa bambina de “La Guerra dei Mondi” di Spielberg.
Io, in sua difesa, sono anche convinto che non sia una cattiva attrice, magari che sia una ragazza profondamente antipatica (lo deduco dai photoshoot delle varie anteprime e dai personaggi che sceglie di interpretare al cinema), ma che sicuramente i ruoli che fino ad ora le sono stati affidati è stata capace di portarli sul grande schermo con risultati qualitativamente buoni. Non mi soffermo troppo sul discorso Bella Swan di Twilight e compagnia “bella” (ammazza che simpaticone) poiché, essendo un personaggio noto principalmente per il suo seguito cartaceo, rischio il linciaggio non avendo mai letto alcun libro della Saga della Meyer. Ho deciso, come di mio solito, di procedere attraverso un piccolo confronto che trova come filo conduttore proprio le interpretazioni della Stewart.

Prendo in analisi il film “Speak” [Speak - Le parole non dette, 2004], anch'esso noto per la sua traduzione filmica dallo scritto di Laurie Halse Anderson e vincitore del premio come miglior film al Woodstock Film Festival. Molto simile, per tematiche ma non per modalità di messa in scena, al recente (e immensamente superiore) “Precious: based on the novel Push by Sapphire” in lista per una serie di Oscar durante quest'ultima premiazione degli Accademy Awards.
I film hanno numerosi elementi in comune. Entrambi sono tratti da romanzi di autrici donne, ed entrambi raccontano storie di ragazze adolescenti violate e con situazioni difficili da affrontare in famiglia. Queste sono pellicole formalmente mature che affrontano l'argomento dell'adolescenza e tutte le problematiche che ad essa sono collegate, attraverso la rappresentazione di un evento traumatico. Ad ogni storia, ovviamente, segue un suo sviluppo particolare, per cui in Speak è presente il tema molto forte della incomunicabilità del trauma subito attraverso le sole parole e una forma di salvezza nell'arte visiva. In Precious, invece, la realtà di profonda povertà in cui è immersa la famiglia della protagonista ci permette di riflettere sullo squallore e la totale incoscienza di una violenza subita che, agli occhi di uno spettatore, appare lampante e aberrante.
Questi temi riflettono l'intento sociale dei film di raccontare uno spaccato di vita reale ed una istantanea, appunto, sociale delle condizioni di vita di un'adolescente americana, che sia bianca o nera.
Devo ammettere che ammiro particolarmente Precious per le modalità in cui queste tematiche sono espresse, la fortissima soggettività che si percepisce durante lo scorrere delle sequenze. Si vive il dramma nella pelle di Precious, la ragazza obesa violata dal padre, attraverso i suoi occhi e la sua immaginazione. In alcune sequenze avviene una sorta di isolamento dalla realtà, un piccolo viaggio ad occhi aperti nei meandri della fantasia, dove la ragazza sogna di essere amata, corteggiata, di vivere una vita serena. Altre sequenze, invece, hanno del ridicolo e sfociano nel grottesco, ma in complesso credo che il film meriti di essere visto.

Tornando al discorso principale, il film Twilight [Twilight- Eagle Pictures, 2008], come tutti sappiamo, si serve anch'esso delle prestazioni “imbronciate” di Kristen Stewart, ma attraverso un filtro molto diverso da quello di Speak. Questo (o meglio, questi, dato che è una saga) sono dei film immaturi per gli adolescenti. Il target a cui mirano non è lo stesso, poiché non è presente alcuna introspezione diretta, alcuna messa in scena della soggettività, non esiste una riflessione di alcun genere. Questo mio giudizio è criticabile, in quanto non sono un grande esperto dei film della saga, avendone visto uno solo e non conoscendo affatto i libri, ma a meno che non ci sia una sorta di interpretazione allegorica della vicenda tra vampiri sbrilluccicanti e licantropi dagli addominali titanici, io non leggo alcun elemento di autocoscienza. Questi film non trattano il tema dell'adolescenza, si limitano a raccontare una storia agli adolescenti, creando un prodotto adatto unicamente alla loro fruizione.
Niente da condannare, intendiamoci, a ognuno il suo, ma è solo una gran bella differenza che deve essere presa in considerazione.

Questa è stata una piccola digressione sulle tematiche che solitamente tratto, sperando di riuscire a scrivere più spesso degli articoli più brevi, mantenendo comunque il mio occhio critico senza perdermi nella “quantità”.