giovedì 1 ottobre 2015

The Green Inferno vs. Cannibal Holocaust: Cannibali a confronto.


Si ricomincia a scavare, dopo quattro anni. Non avrei mai dovuto smettere, ma si sa, queste cose si capiscono solo a posteriori. Magari un giorno ne parleremo, ma, per adesso, torniamo a sporcarci le mani con The Green Inferno di Eli Roth.

Chi mi conosce bene conosce anche il mio interesse per il genere horror e, specialmente, per alcuni dei filoni più particolari come il cannibal movie. Ho detto "interesse" e non "passione" non a caso. Il mio è un vero e proprio interesse scientifico, se così vogliamo definirlo, adoro questo genere di B-Movies non tanto per la trama o per gli effetti speciali, ma per comprenderne l'origine culturale ("Cosa ha portato allo sviluppo di un'intero genere cinematografico incentrato sulla figura del cannibale?"), i suoi effetti sullo spettatore e, in generale, sulla nostra società.

Non possiamo parlare del film di Eli Roth senza parlare del film di Ruggero Deodato: Cannibal Holocaust. Evitiamo la storia della tartaruga e di Barbareschi che spara al maialino e concentriamoci su cosa rappresenta questo film per il genere del cannibal movie e, per il suo rapporto con The Green Inferno.

Cannibal Holocaust, al di là di tutti gli scandali e le trovate di marketing che lo hanno reso famoso, è un gran film. Non solo ha inventato un genere, quello del found footage, ma ha utilizzato uno stile documentaristico per raccontare una storia terrificante. Deodato trae ispirazione dai maestri dell'efferatezza come il Craven de L'Ultima casa a sinistra e Hooper di Non Aprite Quella Porta che raccontano gli angoli nascosti dell'America anni '70, per raccontare la sua verità antropologica. Ancora una volta, il realismo cinematografico, talmente realistico da confondersi con la realtà, viene usato per criticare pesantemente la società e le sue malattie. Chi sono i veri cannibali per Ruggero Deodato? Sono quelli che hanno abbandonato le capanne sulle rive del Rio delle Amazzoni per costruirsi grattacieli al centro di Manhattan, sono i cannibali che campano sulle spalle degli altri e si nutrono dei cadaveri dei loro avversari. I cannibali che hanno abbandonato la jungla per poi tornarci, armati di telecamere e della loro fame e avidità.

In che modo The Green Inferno è un "remake non autorizzato" di Cannibal Holocaust?
Per il fatto che si svolge nello stesso "Inferno Verde" di Deodato? Sicuro.
Per fatto che parliamo sempre di una missione nella jungla profonda, finita molto molto male? Sicuro.
The Green Inferno è soprattutto un remake di Cannibal Holocaust perché riprende le stesse tematiche, pone le stesse domande, e le riattualizza per uno spettatore del 2015 (o 2013, quando il film sarebbe dovuto effettivamente uscire nelle sale).

La critica che fa Roth alla società contemporanea è semplice, la più semplice che si può fare: la nostra è una società costituita sulla menzogna, i suoi valori non hanno alcun fondamento perché sono falsi. La critica di Roth si muove sul duplice piano della critica sociale e antropologica, parlando dell'uomo nel suo essere fondamentalmente un essere malvagio e dell'uomo come membro della società, che utilizza questa sua innata qualità per costruire bugie su bugie e cannibalizzare il prossimo per il proprio predominio. Gli attivisti che si inoltrano nell'Inferno Verde hanno tutti un secondo fine, dal primo all'ultimo. Chi è andato solo per divertirsi, chi per amore, chi per soldi e fama, chi semplicemente per noia. Non c'è verità nel loro comportamento, non c'è impegno sociale, non c'è l'ideologia. Solo bugie.

Il film finisce con una bugia, tral'altro. La protagonista mente, inaspettatamente, fondamentalmente negando ogni avvenimento del film, dal tradimento dei valori al vero e proprio cannibalismo.

Ancora una volta, non sono solamente quelli nella jungla ad essere cannibali.


giovedì 26 maggio 2011

Il caos regna. L'Anticristo di Von Trier.


Gli elementi ci sono tutti: uno psicanalista, tumultuosi rapporti di coppia, il trauma derivato da un forte dolore, l'isolamento e l'utilizzo di espliciti e visionari elementi scenici. Antichrist di Lars Von Trier sembra essere scaturito dalla mia immaginazione, o per meglio dire, dai miei incubi.
Non lo dico per vantarmi o altro, considerato che il film ha disgustato il 90% della popolazione mondiale, ma per convincere me stesso del valore artistico delle mie produzioni passate e sperare in quelle a venire.

Il discorso su questo film è infatti nato, oltre che dalla mia vena instancabile di cinefilia, dal timore che una sceneggiatura sulla quale sono a lavoro da qualche tempo, potesse prendere una strada che ricordasse troppo la pellicola del regista danese.
Come dicevo prima, gli elementi sono quelli. Io non vi annoierò con la sinossi della mia sceneggiatura, considerato che ancora non è neanche completa, ma vi annoierò con una serie di riflessioni sulle tematiche principali del film (tante e complicate) e su un possibile confronto con altre opere.

“Grief is not a disease”

Non è stato facile comprendere IL fulcro tematico del film, dato che si sviluppa su una serie di livelli differenti ed ognuno ha una sua complicata struttura e svolgimento.
L'interpretazione del simbolismo medioevale è la chiave diegetica che permette al protagonista della vicenda (un magnifico Willem Dafoe) di raggiungere le zone remote della coscienza della moglie (una inquietante Charlotte Gainsbourg) dopo la morte improvvisa del loro primogenito ancora neonato. Allo stesso modo, il simbolismo interno alla struttura del film, tripartita in Grief, Pain e Despair, permette allo spettatore di svelare alcuni dei misteri della messa in scena che Von Trier decide di mettere in atto, nell'alternarsi di piacere, dolore e senso di colpa.

Prima di tutto, perché Antichrist?
Molti, me compreso, non avendo letto la trama prima di vedere il film, si aspettavano una pellicola di genere sulle orme di The Omen o Rosemary's baby. Bambini posseduti, ghigni satanici e madri nel terrore di aver partorito un mostro. Per fortuna, niente di più lontano dalla realtà (senza voler togliere nulla ai grandi film citati).
Von Trier scarnifica completamente la tradizione della pellicola horror e la libera degli artifizi scenografici standard e dei clichès di sceneggiatura che, seppur definendo la forma del cinema di genere, ad oggi tendono a trascinarsi stanchi nel mondo del cinema, remake dopo remake. Affonda le dita nel profondo sanguinolento di un corpo ancora non-morto e tira fuori ciò da cui l'orrore scaturisce nella sua forma più potente e pura: la paura.
Il demonio, così come il suo opposto d'altronde, nella diegesi del film non sono altro che paure e limitazioni della coscienza umana. Illusioni, mistificazioni della realtà. Questo ci viene rivelato dalle scoperte del protagonista maschile, un terapista, che attraverso il pensiero razionale fronteggia le paure ed i timori completamente irrazionali di una moglie ancora scossa dal profondo trauma e dal lutto.
L'intento di Von Trier è quello di comprendere la paura e di svelarla agli occhi del pubblico. Non si limita a mostrarla, a rappresentarla come avviene nella gran parte delle pellicole di genere, l'occhio del cinema in questo caso è uno strumento quasi scientifico utile alla comprensione dell'animo umano.

Il dolore, o meglio, la sofferenza, è una delle esperienze più personali che si possano presentare nella vita di un individuo. Esistono degli stadi del lutto, nel caso del lutto, dei gradini che vanno superati per entrare ed uscire dalla sofferenza della perdita di una persona cara. Eppure, non tutti soffono allo stesso modo e, soprattutto, dalla sofferenza non si potrà mai guarire (proprio perché non è una malattia). Bisogna accettarla come parte di noi stessi e andare avanti.

Il film, nella sua prima parte, vuole dimostrare esattamente questo presupposto. Il dolore è la caratteristica che ci contraddistingue ed è una delle modalità di esistenza, o, per citare Heidegger, di essere-nel-mondo dell'ente uomo (o, in questo caso, donna). La prima sequenza, ossia il fondamentale momento che determina il trauma nella mente della donna, è l'unica “autentica” sul piano diegetico; non è soggetta allo sguardo di uno dei due protagonisti (l'uomo e la donna, che possiedono sguardi diversi e qualificazioni diversi della realtà). La narrazione è esterna e onniscente, è IL FATTO del film che scatena una serie di conseguenze nella vita della coppia.

LUI – L'uomo rappresenta la saggezza e la razionalità. Il suo sguardo è sano e portatore di sanità mentale, essendo lui stesso un terapista ha il compito di riportare la donna alla serenità.
Si parla spesso della misoginia di Lars Von Trier e, apparentemente, questo film potrebbe essere adatto ad avvalorare questa tesi. Uno sguardo più attento, però, che riesce a distinguere le immagini filmiche di carattere reale da quelle fantasmatiche senza pasticciare la visione di una pellicola che già di per sé è complicata, potrà confutare insieme a me questa teoria.
E' vero che lo sguardo maschile, nella prima parte del film, è lo sguardo della sanità. E' anche vero, però, che con lo scorrere del tempo e degli eventi, fino a giungere all'epilogo della storia dove questa trasformazione vede il suo apice, è proprio il protagonista maschile ad avere uno sguardo di carattere allucinatorio.
Gli episodi simbolici che segnano i tre momenti fondamentali del film, il passaggio tra i tre capitoli, sono degli esempi di immagine filmica qualificata in modo fantasmatico, ossia frutto di una visione non equilibrata.
L'uomo rappresenta la sanità mentale, è vero, ma al termine del film la perde completamente. Uccide la moglie, ne brucia il cadavere, fugge per la foresta e conclude la propria esperienza (visiva) con una serie di soggettive dove vede riuniti i tre animali simbolici (volpe, daino, corvo) nella forma evanescente dello spettro.

LEI – La donna rappresenta la debolezza nei confronti della natura. E' il sesso debole. Tramite i flashback della protagonista, compreso quello rivelatore che riprende la sequenza iniziale dal punto di vista della donna, ci rendiamo conto che la follia è determinata proprio dalla sua condizione di essere femminile. Il genere femminile è sofferente per definizione, o meglio, è in bilico tra la sofferenza ed il godimento. Questa oscillazione perenne porta la donna, nei suoi momenti di lucidità, ad approfondire il discorso attraverso gli studi e la scrittura di una tesi che ha come oggetto la figura della donna nel medioevo. L'impegno intellettuale è fonte di piacere, questo piacere comporta però una conseguenza: la punizione. Al culmine dell'analisi da parte del marito, si scopre che la più grande paura della donna è proprio "herself", non Satana, non la Natura, non elementi estranei a se stessa, ma ciò che si nasconde all'interno della sua psiche. La paura di se stessa.
La caratteristica della donna è, lo ripeto, quella di oscillare tra il piacere ed il dolore. La ricerca ed il conseguimento del piacere (espresso nella forma del piacere sessuale) porta inevitabilmente alla sofferenza della donna (l'amputazione del suo stesso organo genitale) per via del suo stesso senso di colpa. Questa forma dialettica che viene espressa durante tutto il film, è la conseguenza diretta di una scelta della donna, di cui noi veniamo a conoscenza solo alla fine. La donna, infatti, durante il rapporto sessuale con il marito nell'apertura del film, ha visto il bambino fuori dal suo letto, ha percepito il pericolo ma non l'ha fermato. Ha scelto il godimento.
La scelta è una forma di imposizione del sesso debole sul sesso forte e sulla natura stessa che l'ha punita con la perdita del figlio.

EDEN - Dietro alle tematiche prettamente psicoanalitiche del film (ma anche metacinematografiche e di gender studies), si cela una forte componente religiosa. Il primo elemento che ce lo suggerisce è, ovviamente, il titolo. Ma di questo ne abbiamo già discusso. Il fatto che il peccato di una singola donna, che però le rappresenta tutte, porti alla rovina intera del mondo e alla rivelazione di una natura matrigna è un chiaro riferimento al libro della Genesi. Così come è chiaro il riferimento all'Eden, nome della casa dove si svolge più di metà del film, circondata da un grande giardino.

Ci sarebbero altri milioni di discorsi da fare sul film.
Mi sarebbe piaciuto anche condurre una piccola analisi su alcune sequenze fondamentali... però sarebbe stato veramente troppo lungo!

Per concludere. Antichrist è una forte (fortissima) esperienza visiva. Uno di quei film su cui vale la pena di scavare a fondo, vederlo e rivederlo. Von Trier, così come i suoi colleghi illustri del cinema intellettuale (David Lynch, giusto per citarne uno) è un maestro della spettacolarizzazione visiva ma, soprattutto, è un grande artista che merita l'attenzione del mondo.



giovedì 19 maggio 2011

Mein Kampf, Mein Melancholia

Certe cose mi stupiscono, certe mi lasciano a bocca aperta, altre mi fanno arrabbiare, ma eventi come questi non fanno che alimentare il fuoco misantropico che brucia nel mio petto dal giorno della mia nascita.

Un regista è uno che "fa film".
Un critico è uno che "giudica film".

Lars Von Trier è un regista, un critico ed uno dei più grandi intellettuali che popola l'ambiente cinematografico dell'ultimo decennio. Non solo dirige dei film, non solo giudica i film altrui, ma produce arte seguendo un particolare statuto artistico ed estetico. Non è il primo ragazzino con una macchina da presa in mano. Non è un lecchino di Hollywood che partecipa ai festini e chiacchiera con le grandi attrici. E' un'artista e come tale deve essere considerato.
Michelangelo e Caravaggio sono morti, ma da parecchio tral'altro. Questi sono gli artisti oggi. Quelli che cagano nelle lattine e vendono la propria merda a peso d'oro. Se non lo capite, non potete lavorare con loro. Il cinema, oggi, al pari con la pittura, la musica e la scultura, è diventata una forma d'arte. (Povero me, pensavo che ormai questo fosse palese).
Siamo nel 2011, le cose sono cambiate amici di Cannes. Se volete gli artisti gentili avete sbagliato epoca, ammesso che ce ne siano mai stati di artisti gentili nel mondo.


Al di là delle battute e dei "jokes" che è normale vengano fuori durante le conferenze stampa, io ci tengo a precisare alcuni punti della semi-delirante risposta del regista alla domanda di un giornalista:

- Il termine "Sympathy" in inglese non vuol dire "Simpatia". Vuol dire "Compassione".
- Cito testualmente la frase incriminata : "I understand Hitler".

Ora, io mi chiedo: da quando l'understanding è divenuto un crimine? Comprendere le ragioni che portano allo svolgimento della storia, seppur personalissima, di un personaggio del XX Secolo che ha oltrepassato qualunque barriera umana e ha compiuto azioni aberranti e ritenute impossibili. Comprendere una cosa del genere dovrebbe essere una cosa positiva, o sbaglio?
Comprendere non è mai stato sbagliato. Compatire non è mai stato sbagliato.
Sono le uniche due forze che riescono ad avvicinare le persone, nel dolore e nella follia. Negli eccessi e nel falso buonismo.
Ti capisco perché ti compatisco. Capisco il tuo dolore e la tua sofferenza.

Un regista del calibro di Von Trier non può essere ostracizzato da una manifestazione importante come il Festival di Cannes dove, oltretutto, ha un film in concorso. Questo è il fatto scandaloso e imbarazzante.
I film possono non piacere, le risposte alle domande possono non essere soddisfacenti. Ma l'ignoranza è l'unica cosa che andrebbe punita in questo caso. Ignoranza nei confronti dell'ARTE.
Von Trier potrà essere una personalità eclettica e discutibile, ma sicuramente non è il primo. Tra i suoi illustri colleghi, che durante il loro periodo operativo erano considerati dei folli, posso citare nomi (oggi divenuti) illustri come Salvador Dalì, Andy Warhol e Piero Manzoni.
Questa è gente che si studia a scuola, non sono personaggi dell'underground che si sono improvvisati artisti con una Reflex da 300 euro e la foto in bianco e nero di un paesaggio.

Che l'arte contemporanea non sia per tutti è ormai risaputo. Ma che, ad un festival di qualità come Cannes, non si riesca a passare sopra ad una stronzata come questa, non pensavo fosse minimamente considerabile.

domenica 3 aprile 2011

L'invenzione della storia

Oggi mi è capitato di rispolverare un film che avevo visto pochi giorni dopo la sua uscita, nel 2009 direttamente in lingua originale, che ha piacevolmente segnato la mia vita e i miei studi. Come spesso mi accade, purtroppo, non ho avuto lo stimolo adatto per parlarne e scriverne. Dovevo metabolizzarlo, rivederlo e rifletterci bene prima di parlare di questa pellicola, per niente banale.
Dopo The Office, Extras e le numerose partecipazioni alle premiazioni televisive quali Emmys, Oscars e Golden Globes, pensavo che la mia stima per il comico britannico Ricky Gervais non sarebbe potuta crescere di più. Ecco che, dopo il fiasco di Ghost Town, Ricky stupisce il pubblico americano con questo film dalla trama kafkiana e grottesca, che permette tanto di riflettere quanto di divertisti. The invention of lying, così come un altro dei miei film preferiti, Yes Man (articolo relativo QUI), sfrutta le immense doti comiche di Gervais per ritrarre un mondo parallelo dove nessuno ha mai neanche lontanamente pensato a mentire.

Al li dà delle implicazioni comiche e delle assurde situazioni che questa premessa genera (consiglio vivamente di vedere il film perché, come sapete, io non parlerò della trama, né scriverò una recensione di questo) è importante mettersi nei panni degli abitanti di questa fetta di multiverso (termine vagamente nerd che conviene approfondire QUI) e comprendere l'importanza fondamentale che la menzogna ha comportato nell'intera storia dell'umanità.
Ovviamente, non a caso, il protagonista del film lavora come sceneggiatore per una casa di produzione cinematografica. Il cinema, come Bertetto insegna, è la finzione per eccellenza. Non riprende il vero né lo rappresenta, ma mette in scena un prodotto simulacro della realtà.
La domanda sorge quindi spontanea: come sarà possibile mettere in scena una finzione come il cinema, se non ci è consentito mentire? Come lavoreranno gli attori? Come i registi? E di cosa parleranno i film (ed i libri) se non ci è possibile inventare delle storie?
Queste sono le domande che si pone Ricky Gervais, questa volta non solo interprete ma insieme sceneggiatore e regista, e che, parallelamente (sempre a proposito di multiversi), si è posto un suo collega, decisamente più illustre, come Quentin Tarantino.

Probabilmente molti di voi avranno visto l'ultimo film di Tarantino, nominato agli Oscar di due anni fa e divenuto, come tutti i suoi film, un cult ancor prima di uscire nelle sale cinematografiche.
Anche Inglorious Basterds parte da una serie di premesse simili, ragionando sulla funzione del cinema come di una macchina inventiva talmente potente da riuscire a cambiare il corso della storia. I protagonisti del film, infatti, non solo uccidono il dittatore Adolf Hitler (proprio all'interno di un cinema, sempre per sottolineare l'importanza della settima arte) ma cambiano completamente il corso degli eventi, trionfando sul Terzo Reich in maniera totale e diversa da come viene descritta sui libri di storia e rivoltando l'esito della shoah.

Accantonando gli esempi del cinema contemporaneo e tornando a riflettere sulla teoria del cinema, ci troviamo a riconoscere tra le tante direzioni di studio e scuole di pensiero, fondamentalmente due differenti approcci al materiale filmico. Il primo, di scuola francese rappresentato dal critico e teorico Andre Bazin, interpreta il cinema come una rappresentazione della realtà e pone come massimo sviluppo e vertice artistico alcuni prodotti della Nouvelle Vague e il cinema Neo-Realista italiano del dopoguerra, con speciale attenzione per le opere di Rossellini.
Il secondo, di scuola russa e rappresentato dal noto regista e teorico Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, interpreta il cinema nella sua accezione di complesso prodotto di messa in scena, dove il montaggio e l'organizzazione del quadro sono gli elementi fondamentali. Registi come Fritz Lang (fondamentale un film come Metropolis che inventa un mondo dal nulla e lo costruisce tramite complicati effetti speciali e scenografie) fondano il loro cinema sull'artificialità del mezzo filmico.
La creatività è menzogna, non c'è niente da fare. Quando si racconta una storia, per renderla più interessante è necessario inserire degli elementi che non rispecchiano in tutto e per tutto l'andamento degli eventi. Questo avviene nel cinema.

Nel mondo rappresentato da Ricky Gervais la creatività è assente, sia nel cinema che nella televisione (segnalo un divertente esempio di pubblicità QUI) e solamente con l'introduzione della menzogna le cose iniziano a cambiare. I film diventano racconti di fiction e, proprio come avviene nel film di Tarantino, la storia stessa, che prima veniva raccontata (e non rappresentata) da attori seduti su una sedia e ripresi da una macchina da presa, prende strade diverse. Proprio come nella teoria del multiverso.
Il cinema è una macchina di significati, di finzioni e di storie. Dopo due ore non ha semplicemente pensato all'intrattenimento dello spettatore, ma lo ha coinvolto in qualcosa che spesso neanche lui arriva a comprendere.


giovedì 10 marzo 2011

Buñuel Time!

Complici il regalo delle mie zie (il cofanetto della RaroVideo dei primi lavori del regista Luis Bunuel) ed il corso di Paolo Bertetto sulla teoria e l'interpretazione del film, ho iniziato ad approfondire il discorso sul cinema muto surrealista degli anni '20 e la produzione della coppia Dalì-Bunuel.  

Tutti sicuramente avete sentito parlare, almeno una volta nella vita, dell'artista (perché chiamarlo pittore è decisamente riduttivo) Salvador Dalì. Non molti sanno che Dalì, oltre ad aver partecipato a Spellbound di Hitchcock nel 1945, ha esordito nel cinema con un film del 1929 diretto insieme all'amico Luis Buñuel e sceneggiato da entrambi.
Chiamarlo film è forse inesatto. L'esperimento della coppia Dalì/Buñuel è un cortometraggio surrealista di 15 minuti che sovverte i canoni del cinema narrativo. Racconta qualcosa, ma non è una storia.
Non è facile cercare di descrivere una simile pellicola. Credo che per centrare il bersaglio sia necessario aprire una piccola parentesi storica ed approfondire il tema del surrealismo.
 
Dopo le scoperte della psicoanalisi freudiana, le avanguardie artistiche del '900 hanno concentrato la loro attenzione sulle tematiche del profondo, puntando all'esplorazione dell'inconscio e la sua rappresentazione in forma artistica. Secondo il Freud dell'Interpretazione dei sogni è proprio attraverso il materiale onirico dei sogni che l'inconscio esprime meglio se stesso (se di sé possiamo parlare). Per cui, è naturale che l'artista che, come il filosofo, punta a cogliere l'essenza, voglia focalizzarsi su questi argomenti.
Un chien andalou, se vogliamo, è proprio il “contenuto manifesto” (per utilizzare la terminologia freudiana) del sogno dei due protagonisti.
Le immagini appaiono in un susseguirsi forsennato, apparentemente privo di un senso logico, con l'obbiettivo di toccare lo spettatore nel suo intimo.

Un chien andalou e L'age d'or, rispettivamente 1929 e 1930, sono i due film di cui parleremo. 
La mia idea è quella di soffermarmi in maniera approfondita su entrambe le pellicole di breve durata ed analizzare sequenza per sequenza, tramite quel "metodo paranoico critico" di cui questi film sembrano essere i primi brillanti esempi, la direzione che i film vogliono intraprendere.



giovedì 3 marzo 2011

127 Oscar

Non avrai intenzione di scrivere il solito post sugli Oscar?
Beh... mh...si.

Speravo di non cadere nel clichè degli Academy Awards ma, ammettiamolo, sono un big deal per tutti gli appassionati di cinema e non. Nonostante sia un premio che non ha assolutamente nulla a che vedere con la qualità delle proposte cinematografiche della stagione, dato che non vi è una giuria di competenza esterna (come accade nei festival) ma sono gli stessi membri dell'Academy a decidere i film da premiare. Tom Hanks, ti voglio bene, ma è una questione di business, come sempre.
Però è inutile lamentarsi, bisogna accettare che questa è l'altra faccia del cinema che, come sappiamo, oltre ad essere una splendida arte è anche una macchina da soldi molto ma molto produttiva.

Quest'anno, come l'anno scorso, in lizza per Best Movie ci sono una marea di titoli. E, proprio come accadde l'anno scorso, il mio favorito è il film più sfigato di tutti.
A distanza di 12 mesi continuo a considerare District 9 [Articolo relativo] come uno dei migliori film di fantascienza (e oltre) prodotti negli ultimi tempi, spero di conservare il mio giudizio anche per questo 127 Hours del pluripremiato regista Danny Boyle.

[Il post è stato scritto prima del mio viaggio a Milano, ovvero, prima della deludente serata degli Oscar dove tutto è andato secondo i piani. 127 Hours non ha vinto niente, ma ne parleremo lo stesso.]


La trama è semplice, fin troppo semplice.
A livello di azione diegetica, il film consta di una serie di scelte che il protagonista compie prima del suo incidente nel canyon, vengono vagamente accennate con delle inquadrature di dettaglio su alcuni oggetti (il coltello, la segreteria telefonica, ecc.) e l'incidente stesso come conseguenza di queste scelte sbagliate. Basta.
Ciò che potrebbe rischiare di appiattire una pellicola ben costrutita e dannatamente ben girata è proprio il suo punto forte, perché permette al regista di mantenere una diegetica statica per tre quarti del film (il protagonista con la mano incastrata tra le rocce che, fisicamente, è impossibilitato al movimento) concedendo più spazio al movimento temporale tra i vissuti del protagonista stesso.

Chi è avvezzo al cinema non convenzionale, come il sottoscritto, e chi si è appiccicato allo schermo televisivo per mesi e mesi seguendo serie non convenzionali come Lost o Twin Peaks, potrebbe pensare che tutto l'evento del film sia solamente una finzione. Una macchinazione della mente del protagonista, una qualunque furbata alla Inception [Articolo relativo]. Non è così.

L'evento portante del film definisce la categoria di evento nella filosofia esistenzialista, specialmente heideggeriana, per cui il caos degli accidenti è ciò che realmente definisce il corso della nostra esistenza. La caduta nel canyon è una fatalità, ma le fatalità fanno parte della vita, ed è proprio questo il bello.
La caduta nel profondo scuro della terra è, parallelamente, la caduta del protagonista nel buio della propria coscienza. Esplorando le zone che preferisce tenere nascoste e che vengono sottolineate all'inizio della pellicola proprio con una serie di atti mancati (per dirla alla Freud). La fredda roccia della grotta di 127 Hours ci ricorda la roccia dell'isola de L'avventura di Michelangelo Antonioni, dove l'enigmatica Anna scompare nel nulla senza lasciare alcuna traccia. Proprio come per i protagonisti del capolavoro italiano, la nuda roccia rappresenta un luogo al di là del tempo e al di là della fisica, dove la coscienza è libera di vagare e riflettere su se stessa.
Il tema dell'incomunicabilità è forte in entrambe le pellicole. Nel film di Antonioni i personaggi sembrano vagare su mondi paralleli, come avviene durante il corso degli eventi spostandosi continuamente, mentre nel film di Boyle è il protagonista che non riesce a comunicare con se stesso.

127 ore di attesa sono tante. Secondo un cineasta, quale potrebbe essere il mezzo migliore per riflettere sugli eventi (inaspettatti o meno) che ci coinvolgono giorno dopo giorno? Ovviamente, il cinema stesso.
Il grande Danny Boyle non ci delude neanche questa volta, proponendoci un'interessante riflessione metacinematografica. Il protagonista, infatti, utilizza una piccola videocamera come una sorta di confessionale, o, per continuare il discorso di Metz, profondo conoscitore della psicanalisi lacaniana, utilizza la macchina da presa come fosse uno specchio per riflettere e riflettersi. Lascia le sue ultime memorie nella “memoria”, questa volta digitale, della videocamera, giugendo a conclusioni importanti per rivalutare le sue azioni.
"Forse questa roccia era parte del mio destino". Queste sono le parole di Aron dopo una serie di riflessioni di fronte alla camera.
Lui ha compreso il senso della sua esistenza, proprio dopo che un evento tanto tragico l'ha messa al repentaglio ed ha rischiato di porre un termine ad essa.
La verità viene dalla riflessione, la riflessione viene dall'evento e la sintesi di entrambi questi elementi è il succo di questa magnifica pellicola. Non racconta solamente di una riflessione o solamente di un evento, ma di ciò che entrambi generano quando si incontrano a metà strada e lasciano al protagonista e allo spettatore il tempo di lasciarsi coinvolgere da loro. Il film ha molti monologhi, ed è proprio questo che rende l'interpretazione di James Franco tanto interessante, il suo riflettere ad alta voce indirizzando lo sguardo direttamente in macchina per toccarci con le sue conclusioni e salutarci per l'ultima volta.



lunedì 7 febbraio 2011

Ciò che piace all'italiano qualunque(mente)

Discussioni sul “bello” ce ne sono state molte, forse troppe, e difficilmente si giunge ad una conclusione utile ai fini della dialettica tra interlocutori diversi. Ognuno ha la sua idea, non ci si mette mai d'accordo.
Discussioni sul “piacevole”, invece, ce ne sono state poche. Questo perché viene spesso dato per scontato e tutti pensano di sapere di cosa parlano. Ma a volte ci si confonde lo stesso.
Io prendo in prestito la definizione di Kant dalla sua Critica del Giudizio per chiarire il piacevole dal punto di vista dell'estetica kantiana e dare forma ad un pensiero critico sul cinema contemporaneo:

“Di ogni rappresentazione posso dire che è almeno possibile che essa (in quanto conoscenza) sia legata ad un piacere. Di ciò che dico piacevole affermo che produce in me realmente piacere. “

La stessa definizione sembra essere scontata, ma bisogna andare ancora più in profondità per arrivare dove io ho intenzione di andare. Kant dice che a piacerci è il piacere, anticipando alcune tematiche della psicoanalisi, e che è proprio dell'uomo giudicare una rappresentazione (artistica o meno) secondo le categorie del proprio piacere. Ci piace il piacevole, sembra scontato ma non è affatto. Questa è una verità che riporta ogni giudizio alla sua radice, ogni castello costruito in aria e ogni teoria estetica è brutalmente ancorata alla dimensione del desiderare e del piacere piacevole.
Il bello è un'altra storia, non stiamo parlando di questo. Non tutto quello che ci piace è bello, ma sicuramente tutto quello che ci piace è piacevole.

Sempre per rimanere in tema di filosofia kantiana, che ha segnato profondamente il mio modo di vedere le cose, voglio dividere questa rappresentazione in forma e contenuto e dire che posso riconoscere (e generare) un contenuto piacevole ed una forma piacevole, così come un contenuto spiacevole ed una forma spiacevole.

La riflessione nella sua forma verbale è scaturita da una delle tante conversazioni in macchina con il Green e proprio con la revisione di uno dei suoi lavori (che sospetto sia stato altrettanto influenzato da quella discussione e che vi invito a seguire sul suo Blog) vorrei proseguire il discorso.



Il pregio di questi Kiwi si nasconde nella loro ambivalenza. Il contenuto è decisamente sgradevole, è una verità difficile da accettare così come le grandi rivelazioni della filosofia contemporanea, ma il tutto è racchiuso in una forma molto gradevole. Un semplice animaletto, simpatico ma bastardo, che racconta la cruda verità che molti non voglio accettare. Nichilismo col becco.
Il Green gioca sulla dicotomia forma/contenuto e sull'attenzione del fruitore della sua arte, così come da tradizione satirica e vignettistica, creando un prodotto che non sia totalmente piacevole ma neanche totalmente spiacevole, perché è proprio il contrasto che genera la riflessione e la critica.

Passando oltre e arrivando al nostro amato cinema, vorrei brevemente parlare di uno dei casi da blockbuster di questo periodo e confrontarlo con una delle pellicole più odiate del cinema italiano.

Qualunquemente di Antonio Albanese non sarà sicuramente all'altezza di Salò e le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini, ma qualcosa in comune ce l'hanno. Entrambi riflettono sulla situazione politica/sociale dell'Italia contemporanea.
Mentre Pasolini, eterno reduce del fascismo, rappresenta le orge dello strapotere di regime attraverso uno spettacolo cruento, osceno e al limite del pornografico; Albanese sviluppa una commedia sulle stesse tematiche e permette all'italiano comune di farsi una risata amara.
Gli elementi che costituiscono le due pellicole sono gli stessi, ma la loro messa in scena è ordinata secondo due forme e due tempistiche molto diverse. Questo mi porta, riprendendo il discorso kantiano, ad una conclusione decisamente “spiacevole” per l'Italia intera e per lo spettatore comune, sprovvisto di qualsiasi occhio scavatore.

Il libro non si giudica dalla copertina? Ok, è eticamente scorretto, ma è la copertina che ci da il primo impatto dell contenuto del libro, la copertina è la forma. Una copertina piacevole è un buon inizio per un piacevole libro.
L'occhio dello spettatore comune si ferma alla copertina, al pacchetto. Non gli interessa il contenuto del pacchetto.
Qualunquemente è un bel pacchetto, divertente (manco troppo), colorato e tanto tanto italiano, per dirlo alla Stanis LaRochelle, e per questo piace.
Salò inizia come un film spiacevole, prosegue come un film spiacevole e finisce in maniera sempre più spiacevole. La forma di questo film procurerebbe piacere solamente ad una mente malata, ad uno spettatore dalla personalità contorta, un voyeur, un maniaco sadico. Pasolini è al corrente di tutto questo e proprio per questo motivo ha voluto fare un film spiacevole: per vedere se l'italiano del suo tempo riusciva ad andare oltre le apparenze. Purtroppo non ci riesce e continua a non riuscirci, perché dove si parla di Salò se ne parla male.

Paradossale il fatto che l'aggettivo capolavoro possa essere attribuito ad un film spiacevole, ma è proprio questo il punto della critica, o no?