Con la fine dell’anno ho voluto ripercorrere l’itinerario mentale delle produzioni che più mi hanno divertito negli ultimi tempi; quelle serie tv senza le quali non potrei mai vivere, quelle geniali commedie che mi lasciano incollato allo schermo, le battute che ricorderò per anni e anni e non smetteranno mai di farmi ridere.
Parlavamo, la settimana scorsa, delle differenze culturali evidenti tra la comicità americana e quella italiana, passando saltellando anche attraverso quella anglosassone. Questa volta vorrei concentrare il discorso proprio su quest’ultima, ricorrendo ad alcuni dei maestri della risata “all’inglese”: il gruppo dei Monty Python.
Per avere una visione completa e, soprattutto, chiara sul talento di questo gruppo di attori/autori è necessario dividere la produzione rivolta alla sala cinematografica da quella diretta ad un pubblico televisivo, con le sue tempistiche e regole di messa in scena. Infatti, gran parte della produzione comica televisiva britannica di questo decennio è stata contaminata dalla lezione di John Cleese & Company.
Il primo esempio, capostipite della figliolanza dei Python, è Little Britain.
Inglese fino al midollo, farcito di quell’audacia tipicamente british che riesce a divertire parlando di omosessualità, falsi paraplegici, obesità e razzismo. Avrei potuto aggiungere “senza mai scadere nella volgarità” ma non sarebbe stato assolutamente sincero da parte mia. La comicità del duo Matt Lucas e David Walliams è volgare, da morire, così come lo è gran parte della produzione comica inglese. Eppure, in questo caso come in altri, la volgarità riesce ad avere un senso ed un chiaro ed esplicito movente, quello di scuotere l’opinione pubblica e scrollarsi di dosso quella nomina di comici con la bombetta politicamente corretti in stile Laurel & Hardy o Mr. Bean. Non posso neanche dire che spesso non sia di cattivo gusto, ma, come ho appena detto, loro voglio essere maleducati per abbattere l’inutile distinzione tra buon gusto e cattivo. Mi torna in mente la tradizione del romanzo vittoriano che, a quanto pare, non ha mai abbandonato il cuore degli inglesi nelle forme del linguaggio utilizzato sulla BBC.
Proprio qualche giorno addietro, invece, ho avuto il piacere di vedere nuovamente uno dei capolavori cinematografici dei Python: il film “The Meaning of Life” [Monty Python's The Meaning of Life, 1983], dove si alternano sequenze surreali legate da una sola domanda: “Qual è il senso della vita?”. Ovviamente non mancano, come sempre, delle frecciatine alla storia della filosofia e ai numerosi tentativi da parte dei filosofi di tutto il mondo di dare una risposta a questo mistero che, apparentemente, deve rimanere tale.
La forma cinematografica del film è data dal filo conduttore che lega i numerosi sketch che, altrimenti, avrebbero ricalcato la classica struttura televisiva del programma The Flying Circus di cui i Python comparivano nelle vesti di interpreti ed autori principali.
L’opera mantiene la dissacrante comicità alla quale siamo abituati ripercorrendo il destino dell’uomo come individuo dalla sua nascita alla sua morte, riflettendo in maniera quasi esistenzialistica sull’assurdità degli avvenimenti che accompagnano questo nostro cammino. Il film non viene concepito come opera “ontologica”, non vuole rivelarci il senso della vita, ma vuole farci intendere quanto assurdo possa essere anche solo il porsi di questa domanda.
Pochi giorni dopo la visione di questo film, scartabellando e rovistando nella memoria del mio fido “quadratino” (un giorno magari vi parlerò anche di lui, ma non è oggi il caso) ho trovato una pellicola che cercavo da molto tempo che, mai come in questo momento, ho pensato potesse fare al caso di cui stiamo trattando.
Il film di cui mi occuperò, nell’analisi parallela al film dei Python, si chiama “The Ten” del regista David Wain [The Ten, Delta Pictures 2007]. Nei 93 minuti della pellicola si alternano dieci storie ispirate ai dieci comandamenti, come se volessero, in qualche modo spiegarli o dare loro una sorta di giustificazione. In ogni modo, le storie illustrano personaggi ed eventi ispirati ai comandamenti e sono introdotte da un Paul Rudd che, spesso, trascende il compito di presentatore per permettersi di lamentarsi della propria vita coniugale. Devo dire che questa pellicola non ha mai raggiunto il successo che sperava, specialmente nel mercato italiano, viene infatti considerata un flop dalla critica, la quale, spesso in maniera fin troppo leggera, la bolla con l’aggettivo “volgare” lasciandola cadere nel dimenticatoio.
Un commento che ho letto spesso a proposito di questo film è stato (parafrasando un pochino l’opinione comune): “Mi sembra assurdo andare al cinema e vedere Winona Ryder accoppiarsi con un burattino di legno o Adam Brody lanciarsi da un aeroplano e rimanere vivo, ma conficcato nel terreno come una bandiera”. Devo darvi ragione, come spesso accade, quello che avete visto è assurdo. Lo è, ma non vuol dire che queste assurdità non siano state appositamente scritte e prodotte per un motivo.
Come accade per “The Meaning of Life”, anche la rilettura grottesca e dissacrante della religione tende, questa volta apertamente nel numero musicale conclusivo, a sottolineare quanto sia assurda l’imposizione di una legge antica di più di 2000 anni addietro. I dieci comandamenti della tradizione ebraico/cristiana vengono sintetizzati in una sola “legge”: la legge dell’amore. Il messaggio conclusivo del film, dal sapore vagamente hippie, ha comunque una sua valenza etica che in termini filosofici viene discussa da molto tempo.
Cosa voglio dire, in conclusione?
L'assurdo è nelle nostre vite, nei nostri film e nella nostra morale. Per quanto possa essere difficile da accettare, anche un film che si limita a constatare questo assurdo e a non affermare niente di particolare, ha una sua valenza. L'assurdo non è privo di significato da un punto di vista formale, ma tende a svuotare la tradizione di un significato superato, rivoltandola come un calzino.
Anche il cinema comico, facendoci ridere, trasmette un messaggio non indifferente. E proprio la risata, per quanto "assurda" possa essere, ci permette di accettarlo con un sorriso sulle labbra.
Parlavamo, la settimana scorsa, delle differenze culturali evidenti tra la comicità americana e quella italiana, passando saltellando anche attraverso quella anglosassone. Questa volta vorrei concentrare il discorso proprio su quest’ultima, ricorrendo ad alcuni dei maestri della risata “all’inglese”: il gruppo dei Monty Python.
Per avere una visione completa e, soprattutto, chiara sul talento di questo gruppo di attori/autori è necessario dividere la produzione rivolta alla sala cinematografica da quella diretta ad un pubblico televisivo, con le sue tempistiche e regole di messa in scena. Infatti, gran parte della produzione comica televisiva britannica di questo decennio è stata contaminata dalla lezione di John Cleese & Company.
Il primo esempio, capostipite della figliolanza dei Python, è Little Britain.
Inglese fino al midollo, farcito di quell’audacia tipicamente british che riesce a divertire parlando di omosessualità, falsi paraplegici, obesità e razzismo. Avrei potuto aggiungere “senza mai scadere nella volgarità” ma non sarebbe stato assolutamente sincero da parte mia. La comicità del duo Matt Lucas e David Walliams è volgare, da morire, così come lo è gran parte della produzione comica inglese. Eppure, in questo caso come in altri, la volgarità riesce ad avere un senso ed un chiaro ed esplicito movente, quello di scuotere l’opinione pubblica e scrollarsi di dosso quella nomina di comici con la bombetta politicamente corretti in stile Laurel & Hardy o Mr. Bean. Non posso neanche dire che spesso non sia di cattivo gusto, ma, come ho appena detto, loro voglio essere maleducati per abbattere l’inutile distinzione tra buon gusto e cattivo. Mi torna in mente la tradizione del romanzo vittoriano che, a quanto pare, non ha mai abbandonato il cuore degli inglesi nelle forme del linguaggio utilizzato sulla BBC.
Proprio qualche giorno addietro, invece, ho avuto il piacere di vedere nuovamente uno dei capolavori cinematografici dei Python: il film “The Meaning of Life” [Monty Python's The Meaning of Life, 1983], dove si alternano sequenze surreali legate da una sola domanda: “Qual è il senso della vita?”. Ovviamente non mancano, come sempre, delle frecciatine alla storia della filosofia e ai numerosi tentativi da parte dei filosofi di tutto il mondo di dare una risposta a questo mistero che, apparentemente, deve rimanere tale.
La forma cinematografica del film è data dal filo conduttore che lega i numerosi sketch che, altrimenti, avrebbero ricalcato la classica struttura televisiva del programma The Flying Circus di cui i Python comparivano nelle vesti di interpreti ed autori principali.
L’opera mantiene la dissacrante comicità alla quale siamo abituati ripercorrendo il destino dell’uomo come individuo dalla sua nascita alla sua morte, riflettendo in maniera quasi esistenzialistica sull’assurdità degli avvenimenti che accompagnano questo nostro cammino. Il film non viene concepito come opera “ontologica”, non vuole rivelarci il senso della vita, ma vuole farci intendere quanto assurdo possa essere anche solo il porsi di questa domanda.
Pochi giorni dopo la visione di questo film, scartabellando e rovistando nella memoria del mio fido “quadratino” (un giorno magari vi parlerò anche di lui, ma non è oggi il caso) ho trovato una pellicola che cercavo da molto tempo che, mai come in questo momento, ho pensato potesse fare al caso di cui stiamo trattando.
Il film di cui mi occuperò, nell’analisi parallela al film dei Python, si chiama “The Ten” del regista David Wain [The Ten, Delta Pictures 2007]. Nei 93 minuti della pellicola si alternano dieci storie ispirate ai dieci comandamenti, come se volessero, in qualche modo spiegarli o dare loro una sorta di giustificazione. In ogni modo, le storie illustrano personaggi ed eventi ispirati ai comandamenti e sono introdotte da un Paul Rudd che, spesso, trascende il compito di presentatore per permettersi di lamentarsi della propria vita coniugale. Devo dire che questa pellicola non ha mai raggiunto il successo che sperava, specialmente nel mercato italiano, viene infatti considerata un flop dalla critica, la quale, spesso in maniera fin troppo leggera, la bolla con l’aggettivo “volgare” lasciandola cadere nel dimenticatoio.
Un commento che ho letto spesso a proposito di questo film è stato (parafrasando un pochino l’opinione comune): “Mi sembra assurdo andare al cinema e vedere Winona Ryder accoppiarsi con un burattino di legno o Adam Brody lanciarsi da un aeroplano e rimanere vivo, ma conficcato nel terreno come una bandiera”. Devo darvi ragione, come spesso accade, quello che avete visto è assurdo. Lo è, ma non vuol dire che queste assurdità non siano state appositamente scritte e prodotte per un motivo.
Come accade per “The Meaning of Life”, anche la rilettura grottesca e dissacrante della religione tende, questa volta apertamente nel numero musicale conclusivo, a sottolineare quanto sia assurda l’imposizione di una legge antica di più di 2000 anni addietro. I dieci comandamenti della tradizione ebraico/cristiana vengono sintetizzati in una sola “legge”: la legge dell’amore. Il messaggio conclusivo del film, dal sapore vagamente hippie, ha comunque una sua valenza etica che in termini filosofici viene discussa da molto tempo.
Cosa voglio dire, in conclusione?
L'assurdo è nelle nostre vite, nei nostri film e nella nostra morale. Per quanto possa essere difficile da accettare, anche un film che si limita a constatare questo assurdo e a non affermare niente di particolare, ha una sua valenza. L'assurdo non è privo di significato da un punto di vista formale, ma tende a svuotare la tradizione di un significato superato, rivoltandola come un calzino.
Anche il cinema comico, facendoci ridere, trasmette un messaggio non indifferente. E proprio la risata, per quanto "assurda" possa essere, ci permette di accettarlo con un sorriso sulle labbra.
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