giovedì 26 maggio 2011

Il caos regna. L'Anticristo di Von Trier.


Gli elementi ci sono tutti: uno psicanalista, tumultuosi rapporti di coppia, il trauma derivato da un forte dolore, l'isolamento e l'utilizzo di espliciti e visionari elementi scenici. Antichrist di Lars Von Trier sembra essere scaturito dalla mia immaginazione, o per meglio dire, dai miei incubi.
Non lo dico per vantarmi o altro, considerato che il film ha disgustato il 90% della popolazione mondiale, ma per convincere me stesso del valore artistico delle mie produzioni passate e sperare in quelle a venire.

Il discorso su questo film è infatti nato, oltre che dalla mia vena instancabile di cinefilia, dal timore che una sceneggiatura sulla quale sono a lavoro da qualche tempo, potesse prendere una strada che ricordasse troppo la pellicola del regista danese.
Come dicevo prima, gli elementi sono quelli. Io non vi annoierò con la sinossi della mia sceneggiatura, considerato che ancora non è neanche completa, ma vi annoierò con una serie di riflessioni sulle tematiche principali del film (tante e complicate) e su un possibile confronto con altre opere.

“Grief is not a disease”

Non è stato facile comprendere IL fulcro tematico del film, dato che si sviluppa su una serie di livelli differenti ed ognuno ha una sua complicata struttura e svolgimento.
L'interpretazione del simbolismo medioevale è la chiave diegetica che permette al protagonista della vicenda (un magnifico Willem Dafoe) di raggiungere le zone remote della coscienza della moglie (una inquietante Charlotte Gainsbourg) dopo la morte improvvisa del loro primogenito ancora neonato. Allo stesso modo, il simbolismo interno alla struttura del film, tripartita in Grief, Pain e Despair, permette allo spettatore di svelare alcuni dei misteri della messa in scena che Von Trier decide di mettere in atto, nell'alternarsi di piacere, dolore e senso di colpa.

Prima di tutto, perché Antichrist?
Molti, me compreso, non avendo letto la trama prima di vedere il film, si aspettavano una pellicola di genere sulle orme di The Omen o Rosemary's baby. Bambini posseduti, ghigni satanici e madri nel terrore di aver partorito un mostro. Per fortuna, niente di più lontano dalla realtà (senza voler togliere nulla ai grandi film citati).
Von Trier scarnifica completamente la tradizione della pellicola horror e la libera degli artifizi scenografici standard e dei clichès di sceneggiatura che, seppur definendo la forma del cinema di genere, ad oggi tendono a trascinarsi stanchi nel mondo del cinema, remake dopo remake. Affonda le dita nel profondo sanguinolento di un corpo ancora non-morto e tira fuori ciò da cui l'orrore scaturisce nella sua forma più potente e pura: la paura.
Il demonio, così come il suo opposto d'altronde, nella diegesi del film non sono altro che paure e limitazioni della coscienza umana. Illusioni, mistificazioni della realtà. Questo ci viene rivelato dalle scoperte del protagonista maschile, un terapista, che attraverso il pensiero razionale fronteggia le paure ed i timori completamente irrazionali di una moglie ancora scossa dal profondo trauma e dal lutto.
L'intento di Von Trier è quello di comprendere la paura e di svelarla agli occhi del pubblico. Non si limita a mostrarla, a rappresentarla come avviene nella gran parte delle pellicole di genere, l'occhio del cinema in questo caso è uno strumento quasi scientifico utile alla comprensione dell'animo umano.

Il dolore, o meglio, la sofferenza, è una delle esperienze più personali che si possano presentare nella vita di un individuo. Esistono degli stadi del lutto, nel caso del lutto, dei gradini che vanno superati per entrare ed uscire dalla sofferenza della perdita di una persona cara. Eppure, non tutti soffono allo stesso modo e, soprattutto, dalla sofferenza non si potrà mai guarire (proprio perché non è una malattia). Bisogna accettarla come parte di noi stessi e andare avanti.

Il film, nella sua prima parte, vuole dimostrare esattamente questo presupposto. Il dolore è la caratteristica che ci contraddistingue ed è una delle modalità di esistenza, o, per citare Heidegger, di essere-nel-mondo dell'ente uomo (o, in questo caso, donna). La prima sequenza, ossia il fondamentale momento che determina il trauma nella mente della donna, è l'unica “autentica” sul piano diegetico; non è soggetta allo sguardo di uno dei due protagonisti (l'uomo e la donna, che possiedono sguardi diversi e qualificazioni diversi della realtà). La narrazione è esterna e onniscente, è IL FATTO del film che scatena una serie di conseguenze nella vita della coppia.

LUI – L'uomo rappresenta la saggezza e la razionalità. Il suo sguardo è sano e portatore di sanità mentale, essendo lui stesso un terapista ha il compito di riportare la donna alla serenità.
Si parla spesso della misoginia di Lars Von Trier e, apparentemente, questo film potrebbe essere adatto ad avvalorare questa tesi. Uno sguardo più attento, però, che riesce a distinguere le immagini filmiche di carattere reale da quelle fantasmatiche senza pasticciare la visione di una pellicola che già di per sé è complicata, potrà confutare insieme a me questa teoria.
E' vero che lo sguardo maschile, nella prima parte del film, è lo sguardo della sanità. E' anche vero, però, che con lo scorrere del tempo e degli eventi, fino a giungere all'epilogo della storia dove questa trasformazione vede il suo apice, è proprio il protagonista maschile ad avere uno sguardo di carattere allucinatorio.
Gli episodi simbolici che segnano i tre momenti fondamentali del film, il passaggio tra i tre capitoli, sono degli esempi di immagine filmica qualificata in modo fantasmatico, ossia frutto di una visione non equilibrata.
L'uomo rappresenta la sanità mentale, è vero, ma al termine del film la perde completamente. Uccide la moglie, ne brucia il cadavere, fugge per la foresta e conclude la propria esperienza (visiva) con una serie di soggettive dove vede riuniti i tre animali simbolici (volpe, daino, corvo) nella forma evanescente dello spettro.

LEI – La donna rappresenta la debolezza nei confronti della natura. E' il sesso debole. Tramite i flashback della protagonista, compreso quello rivelatore che riprende la sequenza iniziale dal punto di vista della donna, ci rendiamo conto che la follia è determinata proprio dalla sua condizione di essere femminile. Il genere femminile è sofferente per definizione, o meglio, è in bilico tra la sofferenza ed il godimento. Questa oscillazione perenne porta la donna, nei suoi momenti di lucidità, ad approfondire il discorso attraverso gli studi e la scrittura di una tesi che ha come oggetto la figura della donna nel medioevo. L'impegno intellettuale è fonte di piacere, questo piacere comporta però una conseguenza: la punizione. Al culmine dell'analisi da parte del marito, si scopre che la più grande paura della donna è proprio "herself", non Satana, non la Natura, non elementi estranei a se stessa, ma ciò che si nasconde all'interno della sua psiche. La paura di se stessa.
La caratteristica della donna è, lo ripeto, quella di oscillare tra il piacere ed il dolore. La ricerca ed il conseguimento del piacere (espresso nella forma del piacere sessuale) porta inevitabilmente alla sofferenza della donna (l'amputazione del suo stesso organo genitale) per via del suo stesso senso di colpa. Questa forma dialettica che viene espressa durante tutto il film, è la conseguenza diretta di una scelta della donna, di cui noi veniamo a conoscenza solo alla fine. La donna, infatti, durante il rapporto sessuale con il marito nell'apertura del film, ha visto il bambino fuori dal suo letto, ha percepito il pericolo ma non l'ha fermato. Ha scelto il godimento.
La scelta è una forma di imposizione del sesso debole sul sesso forte e sulla natura stessa che l'ha punita con la perdita del figlio.

EDEN - Dietro alle tematiche prettamente psicoanalitiche del film (ma anche metacinematografiche e di gender studies), si cela una forte componente religiosa. Il primo elemento che ce lo suggerisce è, ovviamente, il titolo. Ma di questo ne abbiamo già discusso. Il fatto che il peccato di una singola donna, che però le rappresenta tutte, porti alla rovina intera del mondo e alla rivelazione di una natura matrigna è un chiaro riferimento al libro della Genesi. Così come è chiaro il riferimento all'Eden, nome della casa dove si svolge più di metà del film, circondata da un grande giardino.

Ci sarebbero altri milioni di discorsi da fare sul film.
Mi sarebbe piaciuto anche condurre una piccola analisi su alcune sequenze fondamentali... però sarebbe stato veramente troppo lungo!

Per concludere. Antichrist è una forte (fortissima) esperienza visiva. Uno di quei film su cui vale la pena di scavare a fondo, vederlo e rivederlo. Von Trier, così come i suoi colleghi illustri del cinema intellettuale (David Lynch, giusto per citarne uno) è un maestro della spettacolarizzazione visiva ma, soprattutto, è un grande artista che merita l'attenzione del mondo.



1 commento:

  1. questo è il suo film che forse mi ha convinto di meno, ma non è poi nemmeno malaccio. comunque concordo assolutamente che sia un'esperienza visiva molto forte!

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