giovedì 10 marzo 2011

Buñuel Time!

Complici il regalo delle mie zie (il cofanetto della RaroVideo dei primi lavori del regista Luis Bunuel) ed il corso di Paolo Bertetto sulla teoria e l'interpretazione del film, ho iniziato ad approfondire il discorso sul cinema muto surrealista degli anni '20 e la produzione della coppia Dalì-Bunuel.  

Tutti sicuramente avete sentito parlare, almeno una volta nella vita, dell'artista (perché chiamarlo pittore è decisamente riduttivo) Salvador Dalì. Non molti sanno che Dalì, oltre ad aver partecipato a Spellbound di Hitchcock nel 1945, ha esordito nel cinema con un film del 1929 diretto insieme all'amico Luis Buñuel e sceneggiato da entrambi.
Chiamarlo film è forse inesatto. L'esperimento della coppia Dalì/Buñuel è un cortometraggio surrealista di 15 minuti che sovverte i canoni del cinema narrativo. Racconta qualcosa, ma non è una storia.
Non è facile cercare di descrivere una simile pellicola. Credo che per centrare il bersaglio sia necessario aprire una piccola parentesi storica ed approfondire il tema del surrealismo.
 
Dopo le scoperte della psicoanalisi freudiana, le avanguardie artistiche del '900 hanno concentrato la loro attenzione sulle tematiche del profondo, puntando all'esplorazione dell'inconscio e la sua rappresentazione in forma artistica. Secondo il Freud dell'Interpretazione dei sogni è proprio attraverso il materiale onirico dei sogni che l'inconscio esprime meglio se stesso (se di sé possiamo parlare). Per cui, è naturale che l'artista che, come il filosofo, punta a cogliere l'essenza, voglia focalizzarsi su questi argomenti.
Un chien andalou, se vogliamo, è proprio il “contenuto manifesto” (per utilizzare la terminologia freudiana) del sogno dei due protagonisti.
Le immagini appaiono in un susseguirsi forsennato, apparentemente privo di un senso logico, con l'obbiettivo di toccare lo spettatore nel suo intimo.

Un chien andalou e L'age d'or, rispettivamente 1929 e 1930, sono i due film di cui parleremo. 
La mia idea è quella di soffermarmi in maniera approfondita su entrambe le pellicole di breve durata ed analizzare sequenza per sequenza, tramite quel "metodo paranoico critico" di cui questi film sembrano essere i primi brillanti esempi, la direzione che i film vogliono intraprendere.



giovedì 3 marzo 2011

127 Oscar

Non avrai intenzione di scrivere il solito post sugli Oscar?
Beh... mh...si.

Speravo di non cadere nel clichè degli Academy Awards ma, ammettiamolo, sono un big deal per tutti gli appassionati di cinema e non. Nonostante sia un premio che non ha assolutamente nulla a che vedere con la qualità delle proposte cinematografiche della stagione, dato che non vi è una giuria di competenza esterna (come accade nei festival) ma sono gli stessi membri dell'Academy a decidere i film da premiare. Tom Hanks, ti voglio bene, ma è una questione di business, come sempre.
Però è inutile lamentarsi, bisogna accettare che questa è l'altra faccia del cinema che, come sappiamo, oltre ad essere una splendida arte è anche una macchina da soldi molto ma molto produttiva.

Quest'anno, come l'anno scorso, in lizza per Best Movie ci sono una marea di titoli. E, proprio come accadde l'anno scorso, il mio favorito è il film più sfigato di tutti.
A distanza di 12 mesi continuo a considerare District 9 [Articolo relativo] come uno dei migliori film di fantascienza (e oltre) prodotti negli ultimi tempi, spero di conservare il mio giudizio anche per questo 127 Hours del pluripremiato regista Danny Boyle.

[Il post è stato scritto prima del mio viaggio a Milano, ovvero, prima della deludente serata degli Oscar dove tutto è andato secondo i piani. 127 Hours non ha vinto niente, ma ne parleremo lo stesso.]


La trama è semplice, fin troppo semplice.
A livello di azione diegetica, il film consta di una serie di scelte che il protagonista compie prima del suo incidente nel canyon, vengono vagamente accennate con delle inquadrature di dettaglio su alcuni oggetti (il coltello, la segreteria telefonica, ecc.) e l'incidente stesso come conseguenza di queste scelte sbagliate. Basta.
Ciò che potrebbe rischiare di appiattire una pellicola ben costrutita e dannatamente ben girata è proprio il suo punto forte, perché permette al regista di mantenere una diegetica statica per tre quarti del film (il protagonista con la mano incastrata tra le rocce che, fisicamente, è impossibilitato al movimento) concedendo più spazio al movimento temporale tra i vissuti del protagonista stesso.

Chi è avvezzo al cinema non convenzionale, come il sottoscritto, e chi si è appiccicato allo schermo televisivo per mesi e mesi seguendo serie non convenzionali come Lost o Twin Peaks, potrebbe pensare che tutto l'evento del film sia solamente una finzione. Una macchinazione della mente del protagonista, una qualunque furbata alla Inception [Articolo relativo]. Non è così.

L'evento portante del film definisce la categoria di evento nella filosofia esistenzialista, specialmente heideggeriana, per cui il caos degli accidenti è ciò che realmente definisce il corso della nostra esistenza. La caduta nel canyon è una fatalità, ma le fatalità fanno parte della vita, ed è proprio questo il bello.
La caduta nel profondo scuro della terra è, parallelamente, la caduta del protagonista nel buio della propria coscienza. Esplorando le zone che preferisce tenere nascoste e che vengono sottolineate all'inizio della pellicola proprio con una serie di atti mancati (per dirla alla Freud). La fredda roccia della grotta di 127 Hours ci ricorda la roccia dell'isola de L'avventura di Michelangelo Antonioni, dove l'enigmatica Anna scompare nel nulla senza lasciare alcuna traccia. Proprio come per i protagonisti del capolavoro italiano, la nuda roccia rappresenta un luogo al di là del tempo e al di là della fisica, dove la coscienza è libera di vagare e riflettere su se stessa.
Il tema dell'incomunicabilità è forte in entrambe le pellicole. Nel film di Antonioni i personaggi sembrano vagare su mondi paralleli, come avviene durante il corso degli eventi spostandosi continuamente, mentre nel film di Boyle è il protagonista che non riesce a comunicare con se stesso.

127 ore di attesa sono tante. Secondo un cineasta, quale potrebbe essere il mezzo migliore per riflettere sugli eventi (inaspettatti o meno) che ci coinvolgono giorno dopo giorno? Ovviamente, il cinema stesso.
Il grande Danny Boyle non ci delude neanche questa volta, proponendoci un'interessante riflessione metacinematografica. Il protagonista, infatti, utilizza una piccola videocamera come una sorta di confessionale, o, per continuare il discorso di Metz, profondo conoscitore della psicanalisi lacaniana, utilizza la macchina da presa come fosse uno specchio per riflettere e riflettersi. Lascia le sue ultime memorie nella “memoria”, questa volta digitale, della videocamera, giugendo a conclusioni importanti per rivalutare le sue azioni.
"Forse questa roccia era parte del mio destino". Queste sono le parole di Aron dopo una serie di riflessioni di fronte alla camera.
Lui ha compreso il senso della sua esistenza, proprio dopo che un evento tanto tragico l'ha messa al repentaglio ed ha rischiato di porre un termine ad essa.
La verità viene dalla riflessione, la riflessione viene dall'evento e la sintesi di entrambi questi elementi è il succo di questa magnifica pellicola. Non racconta solamente di una riflessione o solamente di un evento, ma di ciò che entrambi generano quando si incontrano a metà strada e lasciano al protagonista e allo spettatore il tempo di lasciarsi coinvolgere da loro. Il film ha molti monologhi, ed è proprio questo che rende l'interpretazione di James Franco tanto interessante, il suo riflettere ad alta voce indirizzando lo sguardo direttamente in macchina per toccarci con le sue conclusioni e salutarci per l'ultima volta.