Si ricomincia a scavare,
dopo quattro anni. Non avrei mai dovuto smettere, ma si sa, queste
cose si capiscono solo a posteriori. Magari un giorno ne parleremo,
ma, per adesso, torniamo a sporcarci le mani con The Green Inferno di
Eli Roth.
Chi mi conosce bene
conosce anche il mio interesse per il genere horror e, specialmente,
per alcuni dei filoni più particolari come il cannibal movie. Ho
detto "interesse" e non "passione" non a caso. Il
mio è un vero e proprio interesse scientifico, se così vogliamo
definirlo, adoro questo genere di B-Movies non tanto per la trama o
per gli effetti speciali, ma per comprenderne l'origine culturale
("Cosa ha portato allo sviluppo di un'intero genere
cinematografico incentrato sulla figura del cannibale?"), i suoi
effetti sullo spettatore e, in generale, sulla nostra società.
Non possiamo parlare del
film di Eli Roth senza parlare del film di Ruggero Deodato: Cannibal
Holocaust. Evitiamo la storia della tartaruga e di Barbareschi che
spara al maialino e concentriamoci su cosa rappresenta questo film
per il genere del cannibal movie e, per il suo rapporto con The Green
Inferno.
Cannibal Holocaust, al di
là di tutti gli scandali e le trovate di marketing che lo hanno reso
famoso, è un gran film. Non solo ha inventato un genere, quello del
found footage, ma ha utilizzato uno stile documentaristico per
raccontare una storia terrificante. Deodato trae ispirazione dai
maestri dell'efferatezza come il Craven de L'Ultima casa a sinistra e
Hooper di Non Aprite Quella Porta che raccontano gli angoli nascosti
dell'America anni '70, per raccontare la sua verità antropologica.
Ancora una volta, il realismo cinematografico, talmente realistico da
confondersi con la realtà, viene usato per criticare pesantemente la
società e le sue malattie. Chi sono i veri cannibali per Ruggero
Deodato? Sono quelli che hanno abbandonato le capanne sulle rive del
Rio delle Amazzoni per costruirsi grattacieli al centro di Manhattan,
sono i cannibali che campano sulle spalle degli altri e si nutrono
dei cadaveri dei loro avversari. I cannibali che hanno abbandonato la
jungla per poi tornarci, armati di telecamere e della loro fame e
avidità.
Per il fatto che si
svolge nello stesso "Inferno Verde" di Deodato? Sicuro.
Per fatto che parliamo
sempre di una missione nella jungla profonda, finita molto molto
male? Sicuro.
The Green Inferno è
soprattutto un remake di Cannibal Holocaust perché riprende le
stesse tematiche, pone le stesse domande, e le riattualizza per uno
spettatore del 2015 (o 2013, quando il film sarebbe dovuto
effettivamente uscire nelle sale).
La critica che fa Roth
alla società contemporanea è semplice, la più semplice che si può
fare: la nostra è una società costituita sulla menzogna, i suoi valori non
hanno alcun fondamento perché sono falsi. La critica di Roth si
muove sul duplice piano della critica sociale e antropologica,
parlando dell'uomo nel suo essere fondamentalmente un essere malvagio
e dell'uomo come membro della società, che utilizza questa sua innata qualità
per costruire bugie su bugie e cannibalizzare il prossimo per il
proprio predominio. Gli attivisti che si inoltrano nell'Inferno Verde
hanno tutti un secondo fine, dal primo all'ultimo. Chi è andato solo
per divertirsi, chi per amore, chi per soldi e fama, chi semplicemente per noia. Non c'è verità nel
loro comportamento, non c'è impegno sociale, non c'è l'ideologia. Solo bugie.
Il film finisce con una
bugia, tral'altro. La protagonista mente, inaspettatamente, fondamentalmente negando
ogni avvenimento del film, dal tradimento dei valori al vero e
proprio cannibalismo.
Ancora una volta, non sono solamente quelli nella jungla ad essere cannibali.
Nessun commento:
Posta un commento