sabato 30 gennaio 2010

West Side Story (o, Storie dall'altra sponda)

Prima pellicola, non in ordine cronologico, che presenterò a voi lettori è West Side Story.

I miei preconcetti su questo musical erano tanti: la trama, la durata ed il solito astio iniziale per i film musicali. Eppure, devo ammettere che la visione mi ha lasciato soddisfatto.

Dopo la prima ora del film ho iniziato a trovare significativi i molti riferimenti alla tragedia “Romeo and Juliet” di W. Shakespeare, che sicuramente tutti conoscete, ma al termine della pellicola ho notato quanto questi riferimenti fossero fondamentali per l’andamento del film e per l’approfondimento dei temi portanti di quest’opera.

In breve, immaginate di riproporre la vicenda dei due innamorati di Verona tra le strade sporche e pericolose di New York dove due bande rivali si affrontano giorno dopo giorno per il dominio della zona. Sicuramente meno “esagerato” del film di Luhrmann [William Shakespeare's Romeo + Juliet, 1996] questo musical utilizza una trama classica per parlare di temi assolutamente contemporanei e che, purtroppo, non smetteranno mai di essere fonte di discussione.

West Side Story, nonostante la sua spettacolarità e la cura per i dettagli, parla dell’odio e della difficoltà di integrazione di un gruppo di immigrati portoricani che vedono nel sogno americano la realizzazione di ogni propria speranza.

Come dicevo, ho trovato molto interessanti le trovate registiche per movimentare l’azione nelle coreografie labirintiche delle stradine di New York, come si vede nella grandiosa sequenza d’apertura. Meno interessante, e oso dire “banale”, è stata la trovata di far recitare in “spanglish” attori che non sono affatto di provenienza sudamericana. Questa forzatura ha portato ad uno svilimento del messaggio contenuto nel film, a mio avviso, rendendo più evidenti certi cliché che rendono alcune sequenze pacchiane.


Si dice spesso che i musical di Broadway siano gay. Questo viene parodiato in “The Producers” di Mel Brooks (uno dei pochi musical che adoro) con i versi: “No matter what you do on the stage Keep it light, keep it bright, keep it gay!” oppure è comune nella tradizione del musical classico il termine “Gay” come sinonimo di gaiezza o di allegria e spensieratezza come prerogativa di uno spettacolo divertente.

Sarà che non me ne intendo molto di musical, però mi è parso, specialmente in questo film, che l’azione che manda avanti la trama sia estremamente caratterizzata dal punto di vista sessuale.

Mi spiego. Nella giungla della grande mela degli anni ’70 è difficile “marcare il proprio territorio” proprio per la vastità di questo, come ci suggerisce una prima panoramica dei titoli di testa. Questi ragazzi, perché di giovani stiamo parlando, in pieno sviluppo sessuale, si impegnano per difendere il proprio vicolo, il parco dove giocano, le proprie donne e la propria casa. Come ci insegna Freud, questi comportamenti animaleschi hanno una base profondamente sessuata. Le pulsioni vengono espresse tramite la danza e la musica, il ballo ed il canto, Fred Astaire o Gene Kelly danzavano per conquistare una bella ragazza e volgevano la propria pulsione verso l’oggetto sessuale da loro desiderato. Stessa cosa accade in West Side Story, dove, però, le movenze coordinate ed armoniche dei protagonisti, anche durante la loro lotta mortale, fanno comunque pensare ad una connotazione sessualmente attiva di tipo omosessuale. Ci troviamo comunque all’interno di uno “spettacolo” per cui i corpi atletici degli attori risaltano, le movenze di tipo teatrale la fanno da padrone ed una qualunque lotta per il dominio non può essere presa troppo sul serio.


West Side Story, allora, ad una lettura freudiana, non appare affatto gaio ma veramente molto gay.


2 commenti:

  1. Mamma mia, ormai ci ho preso gusto con i titoli burloni!

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  2. Ottima recensione Bigio!!Bella anche l'interpretazione in base a Freud!!
    Michele

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